Amori domiciliari – CdMF
“Cronache dal mondo fuori”, perché c’è ancora un mondo fuori, perché c’è sempre un mondo fuori!
La serie di racconti, disponibile anche in edizione audio per non vedenti, nasce dalle storie di chi ha voluto condividere con noi la propria esperienza dei giorni in isolamento nel 2020, per via dell’epidemia dovuta al Covid-19. Per ricevere i racconti direttamente nella tua email iscriviti alla nostra mailing list.
Ascolta il podcast del racconto
Ascolta “Per sesso o per amore?” su Spreaker.Voci di Tommaso Valente e Stella Dalla Costa
L’importante è stare insieme
di Stella Dalla Costa
Per sesso o per amore?
È successo quello che temevo. È successo. Punto. Non lo posso cambiare. Mi sono innamorato di un uomo che è sposato e che ha un figlio di quattro anni. Io non sono sposato, non ho un figlio, e ho 25 anni, ancora 25, anche se ne compirò 26 in silenzio, in un’Italia in ginocchio per un’epidemia che ci sta facendo invecchiare tutti troppo in fretta. È sempre per colpa del coronavirus che mi sono innamorato. Sì, perché prima noi ci vedevamo solo per scopare. O per “fare l’amore”, come gli piace dire. Tutte le settimane, ma sempre il lunedì sera alle otto e mezza (dopo il corso di teatro, così la moglie non poteva sospettare niente). Portava sempre qualcosa quando veniva: i cantucci con le gocce di cioccolato che mi piacciono, la spesa che poi avrebbe cucinato lui, il vino… È gentile ed educato, lui. Chiede sempre il permesso di mettermelo in culo ma poi in un modo o nell’altro, che io il permesso glielo accordi o meno, lo fa, e con una sensibilità magistrale. Lui si preoccupava davvero che il buco del mio culo fosse abbastanza lubrificato e rilassato prima di mettermelo dentro. E quando era sulla soglia di casa, pronto ad andarsene, era talmente dolce che si inginocchiava a terra, mi baciava sugli addominali e sussurrava “Vorrei tanto succhiartelo di nuovo”. È proprio questo l’uomo di cui mi sono innamorato, pensate. Sì, ed è successo proprio perché adesso non scopiamo più. Sono venti giorni che ci sentiamo solo su WhatsApp. Audio lunghissimi, foto di tutto quello che stiamo facendo, cucinando. Solo che le mie sono dei grandangoli, le sue invece sono foto a metà. Mezzo letto matrimoniale, due piatti di linguine al salmone invece di tre, mezza cornice d’argento (quella con le foglie intagliate, avete presente?) con mezza foto ritratta. Come se non sapesse che passo ogni secondo della mia giornata a pensare proprio a quella metà che manca.
Da quando siamo rinchiusi in queste prigioni arredate ikea lui è entrato nel mio mondo, e io nel suo. Amo ogni singola parola che mi racconta, anche le parole più strane. Anzi, soprattutto quelle più strane. Oggi per esempio mi ha raccontato della sua ossessione per il pulito. Che fino a qualche anno fa era germofobico, si lavava le mani fino a sanguinare, e che adesso si sente sollevato perché lo siamo diventati tutti. Amo che sia ordinato, preciso, e cerco di ritornare con la mente al profumo del suo dopobarba costoso, molto diverso da quello che mi spalmo ogni mattina, che puzza di discount a metà prezzo. Io invece oggi gli ho raccontato di aver dipinto con gli acquerelli le sbarre di questa mia prigione: sbarre di tanti colori. Ma la verità non gliel’ho detta. Non sono sbarre, sono i fili di una trama e di un ordito. Della storia d’amore che sto tessendo pazientemente in questi giorni di lontananza, e del tappeto persiano che quando sarà finito tutto porterà noi due soli su un’isoletta selvaggia, nelle sue Egadi magari, a godere di un amore che in fondo ci siamo meritati entrambi.
Per sesso.
Al negozio dieci giorni fa ci venivano quante? Una ventina di persone? Il picco di solito era dalle sei alle sette e mezza, finito il lavoro e prima di tornare a casa. Adesso ogni ora ce ne sono almeno cinque che aspettano fuori dal negozio, in fila, mantenendo il metro di distanza. Qualcuno dei clienti lo conoscevo già, altri mai visti. Diversi dalle signore che chiedono “avete anche il guacamole già pronto?”, o dai ragazzi che mettono la spesa dentro gli zaini di propilene, tra il portatile e la borraccia termica. Anche gente normale, che resta ipnotizzata davanti al tofu e che mi chiede di cosa sappia la tahina. La sera adesso finisco sempre tutto, e devo chiamare i fornitori anche quattro volte la settimana. Marco, quello del formaggio, deve portare il triplo del latte che portava prima, perché il latte è quello che si vende di più. Mia figlia Camelia non lo beve il latte, le viene la colite. Da sempre. Le prime volte che è successo c’ero io perché Claudia faceva ancora l’assistente sociale; era prima che si licenziasse e che aprissimo il negozio. Camelia non la smetteva più di piangere, infagottata in uno di quei maglioni di alpaca… Claudia gliene aveva comprati una collezione. Quelli che vendono ai mercatini, quelli peruviani con le pecore cucite sopra. Magari se Claudia non fosse così fissata con la roba biologica Camelia l’avrebbe bevuto il latte. Chissà… Decideva sempre tutto lei. Sempre. E poi che cazzo di nome è Camelia? “Viene dal greco” aveva detto Claudia. E allora? Mio nonno me lo faceva bere dalla vacca il latte. Lo faceva bollire in una latta mezza nera e poi me lo metteva dentro la sua tazza, la tazza marrone che usava solo lui. Non l’ho più ritrovato quel gusto lì.
Io e Claudia da quando è cominciato il coronavirus ci siamo divisi i compiti: io sto in negozio e lei va a fare le consegne a domicilio. Prima non lo facevo mai da qua, ma adesso, quando c’è un po’ di piatta, sento Bea con Telegram. Me l’ha fatto scaricare lei. Perché “così non resta nessuna traccia”, ha sussurrato l’ultima volta che è passata dal negozio. Non facciamo niente di particolare: lei mi manda qualche foto e io le faccio sentire la mia voce quando me lo strofino sul retro. Io la amo Claudia, non è mai stata un peso, ma da quando non stiamo tutti e due in negozio mi sento più leggero. Ho voglia di ricordarmi cosa si provava a sentire quel gusto lì. Mi senti Claudia? Mi senti ancora? Stamattina quando mi sono cambiato mi sono guardato allo specchio. Mi son visto solo gli occhi perché la mascherina mi copriva tutta la faccia. Mi son visto gli occhi di Biagio, il segugio dei miei, che era già vecchio quando sono andato via di casa e adesso non riesce neanche più a muoversi. Son contento che il negozio vada bene eh? Ma stamattina mi si è sfilata la mascherina finché prendevo le arance per la cliente tedesca, e l’ho vista fare un passo indietro, e girare la testa verso il banco frigo. Dieci anni fa preparavo hamburger di tofu e hummus di ceci con la tahina solo per guardare il sorriso di Claudia, il suo marchio di fabbrica. “Direttamente dalla Sicilia” rideva. Mi faceva impazzire che le si scoprissero le gengive… sembrava una bambina. Adesso invece mi guarda come la tedesca del negozio quando mi sforzo di cucinare qualcosa che le piace. E forse sforzarmi non mi piace neanche più. Quando ci leveremo le mascherine forse le cose non torneranno come prima, forse cambierà tutto. Forse il metro di distanza diventerà un chilometro, tra me e Claudia. Forse mi verrà voglia di sentire di nuovo il gusto del latte, quello che mi dava mio nonno, e che non ho ritrovato più. Sono anni che non lo sento più.
No, per amore.
C’erano andati insieme a Leuven, e insieme sarebbero ritornati. Per caso — o forse non era un caso per niente e da qualche parte era scritto — avevano trovato da fare il tirocinio proprio nella stessa città. Avrebbero vissuto insieme per la prima volta. Le Dolomiti e la Valle dei Templi a spasso per la Bologna del Belgio. Stavano in una stanza vicina all’università, con la cucina in comune, gli altri tutti italiani, perché la padrona di casa ne andava matta, come con le French fries. La mattina se la ritrovavano sempre con un bicchiere di jenever in mano a fumare nella cucina comune, solo per guardarli fare il caffè con la moka. Ma a loro non importava della padrona, o che fossero tutti italiani, o che la stanza fosse molto più piccola delle misure che erano scritte nella mail, perché erano insieme, per la prima volta.
Quando avevano sentito che in Italia era tutto chiuso per il coronavirus avevano rassicurato i familiari: sarebbe andato tutto bene, “di sicuro”. L’emergenza era cominciata in Cina e ora era confinata in Italia, per loro non sarebbe cambiato niente. Invece poi l’allarme era arrivato anche lì, proprio nel bel mezzo della loro prima esperienza all’estero. Mandando giù il senso di colpa il venerdì prima del decreto — che avrebbero messo in atto due giorni dopo —avevano annegato la paura in fiumi di birra a Oude Markt, Il bar più lungo d’Europa. Si erano appena abituati a chiamare il pranzo dȋner che dovevano già scordarsi del laboratorio e dei pochi rapporti che erano riusciti a costruire con gli altri ricercatori. Ma erano insieme, era quello che contava. Adesso la mattina si mettevano davanti al pc con una tazza di caffè e un panino al burro d’arachidi, pronti per le video call. Era strano vedere questi eminenti professori spettinati e in pigiama, con i figli a tirarsi i cuscini sullo sfondo. Era diventato tutto più intimo, e neanche loro due si tiravano a lucido da un po’.
Gli altri italiani erano partiti tutti, e dalla loro stanza vedevano serpeggiare il fiume Dyle, che al tramonto diventava una colata d’oro. Sulle sponde le dita dei salici disegnavano dei cerchi nell’acqua. Lui le mise un braccio attorno alla vita e sentì il corpicino leggero premere contro il suo mentre affondava il naso in mezzo ai suoi ricci neri, che profumavano sempre di buono. Lei sentì il calore calmo di lui, solido come le radici dei salici che trattenevano il terreno sulle sponde del Dyle, e si abbandonò alla nostalgia di casa. Erano lontani ma erano insieme, e non c’era bisogno di nient’altro.