Che cosa mi tiene sveglio?

A partire dal 17 di novembre, per due settimane, vi presenteremo quattro brevi racconti – in uscita rispettivamente il martedì e il giovedì – tratti dalla raccolta Istantanee – Snapshots, redatti da Alessia Marinoni e disponibili sia in versione originale italiana che in versione tradotta in inglese.

I pensieri di un mediatore

Ieri sera ho fatto fatica ad addormentarmi. Alcune preoccupazioni mi hanno tenuto sveglio. E stamattina mi sono alzato ancora un po’ stanco e pensando al lavoro. Ora, forse, vi aspetterete che io mi occupi di bilanci o di calcoli difficilissimi sui quali si basano le sorti economiche di un’azienda. Anch’io avrei pensato la stessa cosa: quando ero un ragazzo e immaginavo il mio futuro, non mi sono mai immaginato all’interno di un ufficio con come migliore amica una calcolatrice. Nella mia vita ho sempre cercato una “missione”. E, infatti, eccomi qui. Lavoro come mediatore da quasi nove anni oramai (otto, se proprio volessimo essere pignoli, perché il primo anno è stato più che altro di formazione).  In effetti, di formazione sul campo ce ne vuole per un lavoro come il mio. La teoria di certo non basterebbe. 

Non ho mai studiato per diventare mediatore, è successo un po’ per caso. 

Sono nato in Costa d’Avorio ed è lì che mi sono laureato in pedagogia e psicologia infantile. Poi, mi sono trasferito in Burkina Faso per lavoro ed è proprio lì che è iniziata la mia “missione”: per diversi anni ho lavorato come maestro con bambini dai sei ai quattordici anni circa. Ero un maestro unico per i bambini più piccoli mentre, a quelli un po’ più grandicelli, insegnavo francese e scienze naturali. Mi piaceva vederli crescere con me. Forse è un pensiero un po’ egoista da parte mia, però vedevo i loro successi un po’ come delle vittorie personali. Il che è una lama a doppio taglio perché mi crucciavo se, invece, mi sembrava di non riuscire ad insegnare come avrei voluto. Da questo punto di vista, sono sempre stato molto esigente con me stesso e, tutto ciò, si riflette anche sul mio lavoro attuale. 

Appena arrivato in Italia, ho trovato casa a Napoli. All’inizio, non trovavo corsi di lingua per stranieri, così, ho deciso di provare ad adattare quei metodi di insegnamento che tanto mi erano stati cari in passato provando ad usarli su me stesso. Ho comprato dei libri di grammatica italiana e ho iniziato ad imparare a parlare e a scrivere da autodidatta. Quando mi sono trasferito a Bologna, il mio italiano era ancora incerto ma, piano piano, ho iniziato a migliorare ed è andata ad aggiungersi alle altre lingue che già conosco. In effetti, oltre al francese (che è la lingua ufficiale della Costa d’Avorio) conosco diversi altri dialetti utilizzati fra Costa d’Avorio, Burkina Faso e Mali (zona di origine di mia moglie). Che poi sono delle vere e proprie lingue per la loro complessità: nonostante alcune parole possano sembrare simili ad un orecchio inesperto, una sola sfumatura potrebbe cambiare il senso dell’intera frase. Ecco in cosa risiede una delle maggiori difficoltà del mio lavoro, nelle sfumature. 

Come dicevo, a Bologna ho iniziato a lavorare come tuttofare per Arca di Noè, una cooperativa sociale per la quale mi occupavo delle faccende più disparate. Con il passare degli anni, però, non sono più riuscito a lavorare come prima: ho iniziato a soffrire di vertigini e, quindi, molti dei compiti che prima svolgevo con facilità sono diventati quasi impossibili. All’inizio la vedevo come una sfortuna. Insomma, nessuno sarebbe felice di vedere il proprio lavoro messo a rischio. Tutta questa situazione, però, mi ha portato anche ad una svolta: molti dei miei colleghi, membri della cooperativa, si erano già accorti da tempo del fatto che fossi in grado di dialogare con diversi ragazzi che arrivavano nei nostri uffici e che, magari, non sapevano ancora parlare in italiano.

All’interno di Arca di Noè, in effetti, si incontrano molte culture diverse: molti migranti, arrivati in Italia per la prima volta, entrano in contatto con Arca di Noè durante la fase di prima accoglienza. Alcuni fra loro, però, continuano a rivolgersi al nostro help desk legale per gestire l’iter burocratico previsto per ottenere permessi di soggiorno o l’asilo politico, per esempio. 

Così, piano piano, ho iniziato a mediare per questi ragazzi. All’inizio lo facevo sporadicamente mentre, col tempo, è diventato un vero e proprio lavoro a tempo pieno tanto che, ora, mi occupo anche di trovare mediatori per altre cooperative. 

Già, perché il lavoro del mediatore è molto delicato e deve essere calibrato nel modo giusto. In molti, scambiano il mediatore per un interprete: mentre l’interprete si occupa principalmente di traduzione simultanea, un mediatore ha anche il compito di mediare, appunto, di avvicinare due culture lontane fra loro in modo che le incomprensioni si possano superare nel migliore dei modi. 

Non basta conoscere alla perfezione la grammatica di una lingua per saperla capire: la maestra più importante è la cultura del luogo nel quale quella lingua è parlata. Per esempio, prendiamo il francese: il francese parlato in Francia non sarà mai uguale al francese parlato in Costa d’Avorio. Non bisognerebbe mai fare l’errore di giudicare una lingua così superficialmente. Ricordo un episodio particolarmente significativo a riguardo: durante un’udienza, il giudice mi disse che non c’era bisogno della mia mediazione costante perché conosceva bene il francese. Diceva che mi avrebbe interpellato nel caso avesse avuto dubbi. Ogni tanto, ho cercato lo stesso di intervenire perché sapevo che il giudice non stava capendo tutte le sfumature che il ragazzo stava dando alle sue parole. Il giudice continuava a dire che non c’era bisogno che intervenissi e, alla fine dell’udienza, mi sono sentito un po’ sconfitto, perché sapevo che, se fossi riuscito a mediare, il giudice avrebbe avuto un’idea diversa dell’intera situazione. Tutto ciò che potevo fare era fare presente al giudice, ancora una volta, che quello che aveva tratto dai racconti del ragazzo non era corrispondente a quello che il ragazzo aveva voluto dire. Era il futuro di una persona ad essere in gioco e io volevo prendermi le mie responsabilità a riguardo, così come volevo che facesse anche il giudice. Sono riuscito a strappare al giudice la promessa che si sarebbe informato meglio sulla cultura del ragazzo nella settimana che ci separava dalla seconda udienza. Nonostante ciò, non riuscivo a vederla come una vittoria. Come dicevo prima, sono sempre stato molto esigente con me stesso e mi chiedevo se, forse, non avrei potuto impormi maggiormente per garantire al ragazzo un ascolto più approfondito da parte del giudice. Furono sette lunghi giorni. Quando arrivò il momento della seconda udienza, poco prima che iniziasse il giudice mi prese da parte e mi disse che avevo ragione. Documentandosi, si era reso conto che, in effetti, non era riuscito a cogliere fino in fondo quello che il ragazzo aveva voluto dire. Mi chiede di mediare, quella volta. Alla fine dell’udienza, ecco il verdetto: il ragazzo aveva diritto all’asilo politico. Mentre tornavo a casa mi sentivo leggero, come su una nuvola. Questa volta avevo la consapevolezza di avere svolto bene il mio lavoro, ero orgoglioso. 

La mia professione dà molto, sia in positivo che in negativo: se è vero che mi è capitato spesso di trarre molte soddisfazioni personali dal mio lavoro, è altrettanto vero che mi sono trovato diverse volte a rendermi conto che mi stavo caricando di problemi a me esterni e che li stavo portando a casa con me, ogni giorno di più. Un mediatore è un po’ come uno psicologo: deve sempre cercare di mantenere un certo distacco emotivo nei confronti dei propri assistiti per non farsi sopraffare dalle emozioni. Questa, forse, è la parte che mi riesce meno della mediazione. A volte mi rendo conto di immedesimarmi troppo nei racconti che sento dai ragazzi che arrivano ad Arca di Noè, nelle loro sventure, nei loro problemi, nei loro dolori e nella loro frustrazione che nasce dalla paura di non essere capiti. Molti di loro, non si fidano degli operatori: per via della storia coloniale dei paesi dai quali provengono, sono cresciuti pensando che l’uomo caucasico sia malizioso, che voglia fregarli. Per questo, si guardano sempre le spalle e non si fidano di nessuno se non, a volte, del mediatore. Questa diffidenza è difficile da eradicare perché trova le sue basi in un passato magari non più troppo recente ma che scotta ancora molto. Personalmente, però, mi sento abbastanza bravo nel tranquillizzare le persone e metterle a proprio agio. Spesso, i ragazzi, non guardano nemmeno l’operatore mentre parla, cercano solo la traduzione del mediatore, il che vuol dire che si fidano di lui ma anche questo non va bene. Perché la mediazione funzioni, c’è bisogno che la fiducia sia ripartita in modo equo sul mediatore e sull’operatore. Credo che questo sia il primo scoglio da superare: una volta che i ragazzi si convincono del fatto che degli operatori ci si può fidare, allora tutto scorre più liscio. A volte, i ragazzi si affezionano ai propri operatori e, qualcuno, se ne innamora. Ricordo con molta tenerezza una storia di qualche tempo fa: un ragazzo si era innamorato della propria operatrice. Lei, senza malizia ma con un po’ di ingenuità, forse, l’aveva detto ai suoi colleghi che, dopo averlo convocato, avevano cercato di spiegare al ragazzo che quella situazione non avrebbe dovuto ripetersi. Ricordo che il ragazzo mi chiamò. Era deluso, arrabbiato, imbarazzato e si sentiva offeso e umiliato. In effetti, la sua cultura imponeva che le faccende amorose rimanessero private. Se un rifiuto fosse uscito alla luce del sole, sarebbe stato un grande disonore per la persona rifiutata, non tanto per il rifiuto in sé, quanto per la vergogna pubblica che questo si portava dietro. Il ragazzo si era chiuso, non aveva più nessuna intenzione di parlare né con me, né tanto meno con l’operatrice. Così, ho cercato di prendere la ragazza in disparte e di spiegarle ciò che era scattato nella mente del ragazzo: le ho detto che, se avesse voluto risolvere il problema, avrebbe potuto portarlo a bere un caffè insieme per spiegargli i motivi del suo rifiuto, in questo modo lui si sarebbe tranquillizzato. E così fu fatto. La sera stessa dell’incontro, il ragazzo mi chiamò: mi raccontò tutto e mi disse che era contento che lei l’avesse invitato fuori per spiegarli perché aveva detto di no. Io, ovviamente, ho fatto finta di non sapere nulla. Lui diceva che all’inizio si era rattristato non per il rifiuto ma perché lei l’aveva detto ai suoi colleghi e aveva paura che lo volesse prendere in giro. Dopo quel giorno, però, si sarebbe lasciato le incomprensioni alle spalle. Da quel momento in poi, il lavoro con quel ragazzo è filato liscio, proprio come succedeva prima della sua piccola sbandata. 

A volte, ci si trova a mediare in ambienti che ci portano fuori dalla nostra comfort-zone. Per esempio, mi è capitato diverse volte di mediare in ospedale e non è facile poiché bisogna sempre cercare di mantenere la calma anche quando la situazione di emergenza non lo permette. Io cerco sempre di trarre qualcosa di positivo dalle mediazioni e, in particolare, ricordo un episodio che vede come protagonista un ragazzo maliano affetto da un tumore ad uno stadio piuttosto avanzato. Il medico mi prese in disparte per avvisarmi della gravità della situazione e per chiedermi di dire al ragazzo che, se non si fosse operato, sarebbe di certo morto. Per esperienza, però, so che, per la sua cultura, non si può parlare di morte in modo così diretto. In più, ero convinto che, se avessi fatto come voleva il dottore, il ragazzo non avrebbe acconsentito ad operarsi e, anzi, sarebbe tornato in Mali perché convinto di poter trovare un rimedio al proprio male nelle credenze popolari. Se avessi riportato letteralmente ciò che diceva il dottore, avrei condannato il ragazzo a morte certa. Così, ho cercato di addolcirgli la pillola, facendogli capire che, sì, era una cosa grave, ma che doveva accettare di operarsi per stare meglio. Così, il ragazzo ha deciso di acconsentire e mi ha detto che, dopo l’operazione, la prima persona che avrebbe chiamato sarei istato io. Arriva il giorno dell’operazione e io tengo il telefono sempre a portata di mano, non voglio perdermi nessuna chiamata. Finalmente, il telefono squilla. È lui: ha ancora la voce assonnata per via dell’anestesia ma dice che l’operazione è andata bene e, scherzando, dice che lui sa mantenere le promesse e, infatti, anche in quelle condizioni, non si è dimenticato di chiamarmi. In quel momento, tutta la tensione che avevo provato nelle settimane precedenti svanì. Ogni tanto, basta un piccolo riconoscimento che mi faccia capire che sto andando nella direzione giusta per non sentire più la fatica di un compito così oneroso. Almeno per un po’. 

Non sempre, però, le mediazioni riescono ad andare a buon fine. Molte lasciano un senso di impotenza e un amaro in bocca che non so spiegare. È così che mi sono sentito di recente e sono proprio queste sensazioni e questi pensieri che mi hanno tenuto sveglio stanotte. Solo qualche settimana fa, sono stato assegnato come mediatore ad un ragazzo nuovo, appena arrivato in cooperativa. Fino a qui, tutto bene: ho cercato di presentarmi in modo rassicurante, come faccio sempre, e così è iniziata la nostra conoscenza e la nostra prima mediazione. Qualcosa, però, è andato storto. Durante la mediazione, il ragazzo ha iniziato ad innervosirsi e ad attaccarmi, dicendo che io volevo imbrogliarlo, che lui capiva che quello che stava dicendo l’operatore era diverso dalla traduzione che ne stavo facendo io. Io ho cercato di rassicurarlo dicendo che io ero lì per lui e che quello che stavo traducendo era esattamente ciò che l’operatore stava dicendo. Ogni mio tentativo di rassicurazione, però, non faceva altro che farlo arrabbiare sempre di più fino a che non ha deciso di lasciare la sala nella quale si stava svolgendo la mediazione. Sia io che l’operatore abbiamo tentato di farlo ragionare ma lui era ancora molto arrabbiato con me e ha iniziato ad insultarmi e a minacciarmi. Io ho cercato di mantenere la calma e di restare razionale dicendogli che non poteva comportarsi così e, soprattutto, che non poteva minacciarmi, altrimenti l’avrei denunciato. Tutto ciò ha esasperato la situazione e la mediazione non è stata più portata a termine. È stato scoperto, in seguito, che il ragazzo soffriva di scatti d’ira incontrollabili il che mi spaventò poiché, forse per caso, lo incontrai diverse volte al di fuori della cooperativa e, ogni volta che ciò successe, ne guadagnai solo un altro mucchio di insulti e minacce. Tutto ciò, ha turbato la mia tranquillità. Mentre prima andavo al lavoro serenamente, ora non riesco più a farlo: ho sempre paura che si ripresenti una situazione simile. In più, mi tormento giorno e notte perché penso a cosa ho sbagliato durante quella mediazione. Penso che, forse, se avessi usato altre parole lui non si sarebbe agitato. O, forse, avrei dovuto essere più forte e non farmi spaventare dalle sue parole e dai suoi gesti che in quel momento mi sono sembrati decisamente troppo aggressivi.

Per la seconda seduta di mediazione con questo ragazzo, è stato scelto un altro mediatore. I miei colleghi, però, mi hanno informato che lui ha chiesto di me. Non ha intenzione di continuare con il nuovo mediatore, voglio che sia io a tradurre. All’inizio io ho detto di no, non me la sentivo di continuare. Poi, però, i miei colleghi mi hanno convinto ad andare avanti: dicono che è tutto fumo e niente arrosto, che devo cercare di non agitarmi, di rimanere razionale e di mantenere la calma in modo da superare queste incomprensioni. Tutt’ora, non sono convinto che funzionerà. Per oggi è fissato il nostro secondo appuntamento. O meglio, forse il quarto o il quinto, se contiamo quelli che si sono svolti al di fuori dei miei orari di lavoro. Non so come andrà ma, nonostante non possa dire di essere tranquillo, sento che anche questa è la giusta continuazione di quella “missione” che sognavo quando mi sono laureato: essere d’aiuto agli altri, anche, nel limite del possibile, quando questo aiuto non viene ricevuto a braccia aperte. Ecco da dove derivano molte delle mie gioie e soddisfazioni ma anche molte delle mie preoccupazioni. Ed ecco perché, per fare il mediatore, uno degli ingredienti fondamentali è la dedizione.

Un ringraziamento speciale al team della Cooperativa Sociale di Bologna Arca di Noè che ci ha permesso di realizzare questo articolo.

Mi chiamo Alessia Marinoni, sono nata una mattina d’estate di venticinque anni fa nell’hinterland milanese e sono una studentessa di mediazione linguistica. Già da qualche anno a questa parte, Bologna mi ha adottata diventando la mia seconda casa e dandomi l’opportunità di fare esperienze del tutto nuove come condividere una casa con altre cinque persone della mia età e dedicarmi alle attività che amo: la scrittura e la traduzione. Mi piace ascoltare ciò che gli altri hanno da condividere e ponderare le diverse sfumature che possono assumere le parole in contesti diversi fra loro, anche a livello culturale. Per questo, in un futuro non molto lontano, mi piacerebbe fondere quante più attività possibili fra ascolto, traduzione e scrittura e farne un lavoro.

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