Dar luce nel deserto – intervista a Daniela Gatta sul lavoro nei campi saharawi

a cura di Caterina Maggi

«Mi sento vicina alla loro causa perché è una giusta causa. Non è solo la rivendicazione di un territorio; è la richiesta di un referendum di autodeterminazione». Daniela Gatta ha la voce ferma e decisa quanto racconta la sua esperienza a contatto con la causa dei Sahrawi, un’esperienza che ha segnato la sua vita e l’ha spinta a scegliere il suo posto nel mondo, vicino alle rivendicazioni di questo popolo del deserto. La sua storia di cooperazione all’interno dei progetti per la sanità nei campi profughi Sahrawi inizia 10 anni fa, quando comincia a lavorare per conto dell’Ufficio politiche per l’immigrazione e cooperazione decentrata del Comune di Ravenna.

Dar luce nel deserto – intervista a Daniela Gatta sul lavoro nei campi saharawi from Instant Documentary on Vimeo.

La sua prima esperienza nei campi è però precedente, legata alla laurea magistrale in Cooperazione internazionale, dove l’incontro con l’associazione gruppo Yoda la porta a viaggiare nelle wilayat nel deserto all’interno di un progetto di scambio e cooperazione: «Per me è stato un momento di condivisione con altri ragazzi della mia età di un’esperienza fortissima. Mi ero approcciata a questo contesto con un po’ di ingenuità forse – racconta sorridendo ripensandoci – non avevo avuto paura di andare in un posto ostile, anche per le condizioni climatiche del deserto». In quella terra di sabbia sferzata dal vento, Daniela conosce quello che chiama “un piccolo popolo dal grande cuore”: «Quando parliamo dei sahrawi parliamo di piccoli numeri, forse uno dei motivi per cui attira così poco l’attenzione internazionale. Ma sono un gruppo di uomini e donne – afferma senza esitazione – che stringono tra le mani una lotta pacifica che dura da diversi anni». Tra le tende del deserto, dove svolge un periodo di volontariato aiutando la psicomotricista del campo, matura il suo impegno per la causa di quella gente dimenticata, costretta a una strenua resistenza contro l’invasione marocchina nel territorio del Sahara Occidentale. Da lì in poi, si spalancano le porte per un tirocinio nel comune di Ravenna, prima seguita da una tutor e poi autonoma nella gestione dei progetti del comune romagnolo. Tra questi, quello di fornire tutto il sostegno possibile a chi in mezzo a un contesto così difficile si trova alle prese con un evento psicologicamente e fisicamente provante, forse il più provante per ogni donna di ogni latitudine: il parto.

L’attenzione per questa particolare tematica non è immediata, ma frutto di anni di dialogo tra le istituzioni italiane locali e la Rasd: «È un rapporto che si è consolidato da un’evoluzione, partita inizialmente come una collaborazione più spiccatamente di genere – spiega in riferimento a precedenti progetti, più incentrati sulla formazione professionale delle donne sahrawi – grazie all’interlocuzione tra ente e ministeri locali abbiamo poi spostato il focus sul comparto salute, in particolare sulla salute delle donne e neonatale». Il comune di Ravenna fa parte di una rete consolidata: questo ha permesso all’ente di agire con efficacia coordinandosi con la Regione Emilia Romagna, ma anche con le autorità locali sahrawi e le ong italiane – tra queste, l’associazione Kabara Lagdaf e Cisp. Ciò ha permesso una progettazione integrata durata 4 anni, che nell’ultimo biennio ha concentrato la propria attenzione sulle equipe di medici scolastici, pronti a intervenire in casi di disagio della salute dei bambini. Non solo: la rete permette di progettare interventi urgenti in Algeria ma anche in Italia, e di lavorare per la formazione del personale sanitario locale – ostetriche in particolare. L’epicentro di questo progetto è la “Jaima del Parto”, cioè casa del parto, un hub di presidio sanitario ostetrico e neonatale sul territorio situato nell’ospedale della wilaya di Smara, a un’ora circa dall’algerina Tindouf. Il nome non è casuale: l’idea di una casa, accogliente e famigliare, serve a rassicurare le partorienti, che non hanno l’impressione di trovarsi in un freddo e asettico spazio di ospedale.
«Abbiamo voluto che fosse un luogo sicuro e familiare dove le ostetriche e ginecologhe potessero ritrovarsi per cercare di fidelizzare le pazienti alla struttura ospedaliera» spiega Gatta. Il progetto è vitale su un territorio dove spostarsi per raggiungere un ospedale può mettere seriamente a rischio sia la donna che la nuova vita che viene al mondo. «La Jaima – spiega Gatta – non è stata concepita per contrastare il parto in casa, quanto per garantire una maggiore sicurezza per le donne e per la salute del nascituro, che è sempre stato considerato un elemento su cui il ministero ci ha chiesto di lavorare». In questo senso, il progetto ha saputo cogliere l’opportunità di questa rete solidale al femminile già presente; in particolare, spiega Gatta: «I dispensari continuano a rimanere un punto estremamente importante per le donne in questa fase della loro vita. Siamo intervenuti anche lì e con tutte le ostetriche sul territorio, perché abbiamo capito anche grazie all’esperienza, che non potevamo concentrarci solo sulla Casa del parto».


Il nodo centrale è stato quindi sì, “insegnare” e formare il personale, ma senza intervenire in senso troppo invasivo. Quello che è stato impostato è stato quindi un lavoro “alla pari”. Nell’ultima missione sono intervenute Eleonora Telloli e Angela Coppola, ostetriche italiane molto giovani e alla prima esperienza in un contesto straniero, che hanno lavorato sulla fisiologia della gravidanza, ma anche su posizioni alternative durante il parto. Il segreto di questa collaborazione, racconta Gatta: «Sono stati grande parità e rispetto reciproco, perché le ostetriche italiane non si sono mai poste come depositarie di un sapere immutabile; invece, hanno promosso un lavoro che si svolgeva alla pari e in un’ottica di scambio reciproco». Viceversa, in passato anche alcune ostetriche sahrawi sono partite alla volta dell’Italia, per prendere servizio con i colleghi italiani nei punti nascita di Ravenna e Lugo. Una formazione preziosa che hanno portato con loro tornate nei campi: oggi una delle ostetriche, Jaiduma Belali Labiad, è la responsabile del Programma Nazionale di Salute Riproduttiva per tutto il territorio sahrawi.
Daniela ricorda anche Lea Zanotti, Carla Versari e Vania Giuliani, ostetriche e ginecologhe che sono partite per affrontare una missione difficile nel “deserto del Diavolo” anni prima che il suo percorso col comune di Ravenna iniziasse. Ma aggiunge: «Sono veramente tante le persone da ricordare e ringraziare, penso ad esempio a chi, come Lea Zanotti ed Enzo Esposito, è riuscito anche a fornirci contatti con aziende farmaceutiche come Kolinpharma e Pharmaelle – un appoggio che è stato indispensabile quando a causa della pandemia – non potendo partecipare direttamente abbiamo partecipato all’invio di un container con materiali per i dispensari, in particolare integratori ad hoc per la gravidanza». I risultati di questo lavoro di cooperazione, lungo anni, si sono visti proprio con il Covid: nonostante l’assenza di missioni che «nella migliore delle ipotesi possono partire una volta all’anno» gli operatori sono riusciti non solo a mantenere all’attivo lo screening scolastico e la rete territoriale di assistenza, ma sono stati fondamentali anche per gestire l’emergenza sanitaria diffondendo le buone pratiche per fermare il contagio e poi occupandosi della vaccinazione.


Ripensando alle prime esperienze, Daniela ripercorre nella sua memoria istanti che le sono rimasti impressi nella mente, con voce grata: «Ricordo ancora la prima mattina in cui mi svegliai lì: svegliarsi alle prime luci dell’alba in mezzo al deserto… è ancora un ricordo che riservo, molto vivido. Il secondo sono gli sguardi, ad esempio delle donne che si coprivano il volto per proteggerlo dal vento e dalla sabbia. Ma quando incrociavi i loro occhi ti rendevi conto di quale fosse la loro più grande gratitudine: che fossimo lì, a condividere con loro quella situazione difficile».

Oltre la sabbia e il vento è il magazine di informazione sul popolo saharawi realizzato da
CISP – Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli
Nexus Emilia Romagna
Comune di Ravenna

in collaborazione con
Instant Documentary APS
Regione Emilia-Romagna

Un pensiero su “Dar luce nel deserto – intervista a Daniela Gatta sul lavoro nei campi saharawi

  • Luglio 20, 2022 in 3:35 pm
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    Grande merito a voi tutte e tutti, e a te Daniela, per questa meravigliosa e importante missione

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