Giulia Olmi: uscire da Matrix
i ricordi, le emozioni, il lavoro nei campi saharawi
a cura di Marco Boscolo dal numero 2 di Oltre la sabbia e il vento
Uscire da Matrix: i ricordi, le emozioni, il lavoro nei campi sahrawi. Intervista a Giulia Olmi, CISP from Instant Documentary on Vimeo.
“Dopo trentacinque anni che frequento i campi, ho la sensazione che andarci per me è un po’ come uscire da Matrix e vedere la realtà vera”. A differenza di Cypher, il personaggio che nel film di fantascienza del 1999 tradiva la Resistenza per poter tornare nella finzione del software, Giulia Olmi non rinuncerebbe mai. “C’è l’idea che la realtà è quella” e non ciò che viviamo qui. “Quando torno a casa e tutto è così bello, ma finto: qualcosa che abbiamo costruito noi. Ma la realtà vera è quell’altra, quella dei campi: cruda, dura ma anche estremamente affascinante,” perché è ridotta all’essenzialità e priva di superfluo, per certi versi precaria e sicuramente difficile. Gli anni della pandemia, con l’impossibilità di viaggiare, sono stati uno dei periodi più lunghi senza che Olmi potesse frequentare i campi e fosse quindi costretta a una prolungata permanenza dentro a Matrix.
Il primo impatto con la realtà è stato nel 1984. “Era solo un viaggio di conoscenza”, racconta, “e io ero poco più che ventenne”. I campi sahrawi sono stati una delle prime località a cui il CISP ha dedicato una parte delle proprie attività fin dalla sua fondazione. È stato l’inizio di un percorso che ha portato, dieci anni dopo, a una sede stabile dell’ong nei campi e, per Giulia, a una frequentazione continua, anche tre o quattro volte l’anno, che in oltre trentacinque anni non si era mai interrotta così a lungo. Ma il ritorno, che Olmi non vede l’ora si realizzi, non significa soltanto prendersi una “boccata di realtà”, ma una necessità imprescindibile dell’attività di cooperazione del CISP. “Noi siamo una struttura piuttosto decentralizzata, con uffici che impiegano personale locale in tutti i territori in cui operiamo”, spiega Olmi. Si può lavorare un po’ a distanza, “ma lo scambio e il lavoro che si riesce a fare stando gomito a gomito è una cosa preziosissima”. Olmi, come gli altri suoi colleghi, ha mantenuto costantemente i contatti tra Italia e Africa, ma gli ultimi due anni sono stati “anni di buio sui campi”. Che non significa solamente la difficoltà di far procedere i progetti in corso, ma proprio la sensazione che la riduzione dei contatti con l’esterno abbia come costretto il popolo sahrawi a trattenere il fiato. È stato difficile far arrivare qualsiasi cosa, perché non c’erano i voli, o ce n’erano pochi. E poi mancavano le persone, tutti e tutte coloro che di solito arrivavano in missione da fuori. Sono state bloccate le attività, lunghe o corte, che portavano esperti, professionisti nei campi. “Per loro”, constata amaramente Olmi, “è come se avessero chiuso una finestra sul resto del mondo, una finestra dalla quale entravano importanti boccate d’ossigeno”.
Sullo sfondo di questa situazione complessa causata dalla pandemia c’è anche il ritorno della guerra, ormai entrata nel suo secondo anno, senza che si veda la luce all’orizzonte. Tra gli effetti inevitabili della riapertura del conflitto armato ci sono state le ondate di sfollati dalle zone più direttamente colpite. Constata Olmi, che “la popolazione che fino allora viveva nella parte dei territori del Sahara Occidentale controllata dal Fronte Polisario è stata costretta a spostarsi”. A seconda della zona in cui si trovavano al momento della ripresa delle ostilità, una parte si è spostata in Mauritania, ma molti si sono spostati verso i campi perché così avrebbero potuto godere dello status di rifugiati e degli aiuti umanitari. “Nelle zone più vicine al confine, come per esempio nella Wilaya di Dakhla, c’è sicuramente stato un aumento sensibile della popolazione”, racconta Olmi. Ma non ci sono cifre ufficiali ed è difficile calcolare il numero delle persone sfollate. “È fondamentale che continui il censimento degli sfollati, perché se non si sa di quante persone si parla e non si hanno i numeri per capire bene la mobilità delle persone, come si fa ad aiutarle?”, fa notare.
L’aumento della popolazione di alcune aree come quella di Dakhla ha anche posto maggiormente sotto pressione il sistema scolastico. Da una parte c’è stato l’aumento di bambini e bambine, dall’altra la chiamata alle armi per la guerra ha drenato almeno una parte degli insegnanti che si sono partiti volontari per il fronte. Finora la guerra non ha intaccato l’erogazione dei servizi educativi, “ma li ha sicuramente resi più precari”.
Proprio lo sforzo per l’alfabetizzazione della propria popolazione aveva profondamente colpito la giovane
Olmi quando cominciava a frequentare i campi negli anni Ottanta. In quell’agosto del 1984, mentre il termometro indicava impietosamente 54 °C, “mentre mi aggiravo per i campi, incontrando le donne, conoscendo e parlando con le persone, a un certo punto ho visto in una tenda un giovane ragazzo con una lavagna che stava facendo lezione”. Si trattava di condizioni precarie, umanitariamente difficili e di un ambiente inclemente per le attività umane, eppure l’educazione per quelle persone aveva un ruolo centrale. “Me ne stupii molto; come mi colpì vedere in un’altra tenda un gruppo di bambini che assistevano a una spiegazione di prevenzione sanitaria”.
Era una situazione inaspettata, che di primo acchito cozzava con l’immagine stereotipata dei rifugiati. “C’era un fermento di organizzazione da parte della popolazione, con assemblee, persone che si riunivano, nonostante si fosse in una situazione tragica, con gli aiuti umanitari che non è che siano arrivati immediatamente”. E la scuola e l’educazione sanitaria hanno avuto fin da subito un ruolo centrale, perché percepite da subito dallo Stato sahrawi come collanti fondamentali della coesione sociale. Lo era ancora di più per le donne, che sotto il dominio coloniale erano in maggioranza analfabete, mentre in “questo ambiente pazzesco, questa distesa immensa, a perdita d’occhio di terra e di cielo” che era la nuova tragica realtà del proprio popolo potevano imparare a leggere e a scrivere, seguire lezioni sulla corretta gestione della salute propria e della propria famiglia.
Oggi, quando Giulia Olmi pensa ai campi e ai territori, prova la stessa preoccupazione di sempre: “la guerra porta morti, porta disastro, porta inquietudine, porta povertà”. E le conseguenze possono essere ancora più gravi in uno scenario già molto complicato. Per esempio, nonostante il conflitto si sia riacceso da oltre un anno, solamente nelle ultime distribuzioni gli aiuti umanitari sono riusciti a portare qualche migliaio di pasti in più. A questo, si aggiunga che la rarefazione dei contatti dovuta alla pandemia ha bloccato l’arrivo di beni e materiali di aiuto umanitario che sarebbero dovuti arrivare.
Una delle maggiori frustrazioni di Olmi è nella risposta, da sempre troppo blanda, che lei e i suoi colleghi ricevono dalla classe politica ad ogni richiesta di intervento. Le sembra che ci sia sempre troppo poco interesse per questo conflitto e per le condizioni degli sfollati. “Cerchiamo di portare avanti con tenacia l’azione di sensibilizzazione, informazione e pressione perché i politici conoscano e agiscano con coerenza. Molti si dicono disponibili e convinti. Poi, certo che passare ad agire concretamente, per quanto in loro potere, ce ne passa”.L’amarezza di quest’ultimo pensiero, però, si dilegua non appena si concentra sul suo imminente viaggio nei campi, il primo dopo due anni di pandemia. “Mi emoziono, adesso, a pensarci”, si commuove, “perché significa poter rivedere persone con le quali io di fatto sono cresciuta in questi anni”. E poi c’è sempre quel richiamo dell’Africa, che si fa sentire anche nella nebbia emiliana, e che le indica la via per uscire ancora una volta da Matrix.
Oltre la sabbia e il vento è il magazine di informazione sul popolo saharawi realizzato da
CISP – Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli
Nexus Emilia Romagna
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in collaborazione con
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