“A working class hero is something to be” – CdMF
“Cronache dal mondo fuori”, perché c’è ancora un mondo fuori, perché c’è sempre un mondo fuori!
La serie di racconti, disponibile anche in edizione audio per non vedenti, nasce dalle storie di chi ha voluto condividere con noi la propria esperienza dei giorni in isolamento nel 2020, per via dell’epidemia dovuta al Covid-19. Per ricevere i racconti direttamente nella tua email iscriviti alla nostra mailing list.
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Ascolta “A working class hero is something to be” su Spreaker.Voci di Lorenzo Torcello e Tommaso Valente
Non sono mica immune!
di Eleonora Suppi
Ravenna, 12 marzo 2020 ore 7:00
Suona la sveglia e mi trascino giù dal letto. È faticoso svegliarsi presto, vestirsi e prepararsi per uscire quando quasi tutta Italia ha la possibilità di smart working comodamente da casa, limitando i rischi di contagio. Ma noi non possiamo permetterci questo lusso.
Mentre salgo in macchina penso alla pesante giornata lavorativa che mi aspetta: timbro il badge per arrivare in cantiere, entriamo due per volta in spogliatoio e timbro il secondo badge, poi aspetto che il capo cantiere ci illustri le mansioni programmate per la giornata e la squadra con cui dovremo lavorare. Oggi molto probabilmente termineremo il lavoro iniziato ieri, sostituire e rimontare la pompa dell’ammoniaca, sperando che i dipendenti dell’impianto l’abbiano bonificata per non farci respirare ancora più merda di quella che non respiriamo di già.
Penso che dovrò lavorare con il mio collega riminese. Cazzo, proprio riminese! Con tutti i contagi che si sono registrati nella provincia di Rimini in queste ultime settimane. Non che Ravenna sia da meno, ma mi fa paura dover lavorare a stretto contatto con persone menefreghiste che non indossano neanche i dispositivi di protezione. Chissà se rispettano anche loro il decreto come me. D’altronde la mamma degli imbecilli è sempre incinta, non si può mai sapere.
Cosa faccio? Mi viene voglia di fare inversione e tornarmene a casa. Guido, con l’idea di concedermi almeno un caffè prima di entrare in cantiere.
– Cazzo i bar sono chiusi! – penso tra me e me.
In cantiere è praticamente impossibile farsi una pausa caffè decente alla macchinetta, c’è sempre un casino di gente e tutti senza mascherina. Preferisco fumarmi solo una sigaretta in santa pace piuttosto che rischiare il contagio dentro la stanzetta vicino ad altri colleghi. Già siamo obbligati a lavorare a stretto contatto tutto il giorno! Eh sì, perché in cantiere è impossibile mantenere le distanze di sicurezza. Ancor meno dovendo smontare quei dannati pezzi di impianto luridi e pericolosi; sono così pesanti che, anche volendo, da solo non riuscirei mai a smontarli.
Una volta che raggiungo il parcheggio spengo la macchina e nei dieci minuti di attesa prima di entrare penso se ne valga veramente la pena. “I dispositivi di protezione sono introvabili – ci ha comunicato il capo – tutto esaurito: mascherine FPP3/FPP2 e gel disinfettanti a base di alcol. Arrangiatevi con quello che è rimasto”. Ma com’è possibile? Proprio ora che è necessario lavorare in sicurezza per combattere la diffusione del virus!
Penso alla mia salute e a quella dei miei cari; ai miei genitori, mia sorella che è al secondo mese di gravidanza, i miei nonni che già hanno i loro acciacchi. Perché sono qui? Perché rischiare ogni giorno di prendersi questo maledetto virus e mettere a repentaglio non solo la mia vita – perché sono giovane, ma non immune – ma anche quella di tutte le persone che mi circondano?
Mancano due minuti, faccio un respiro profondo ed esco dalla macchina. Alla fine in qualche modo dobbiamo campare. Diamo inizio ad un’altra giornata di inferno.
Io lo chiamo l’incubo.
di Eleonora Suppi
Ravenna, 23 marzo 2020 ore 22.00
Mi è sempre piaciuto fare il turno di notte. Non so perché ma la notte mi ha sempre affascinato; la luna, le stelle e la quiete che come un manto copre la città. Tutta la città tranne la zona industriale che continua a palpitare e battere, tutum tutum, come se fosse il cuore pulsante di un organismo chiamato metropoli. Anche in questo periodo così pieno di incertezze e paure mi piace lavorare di notte. Mi fa sperare che l’indomani forse sarà un giorno migliore e forse tutto questo incubo sarà finito.
Io lo chiamo incubo, ma gli scienziati lo chiamano Covid-19. Che poi io non ho mica capito perché 19 se siamo nel 2020! Era così bello salire in macchina e venire a lavorare prima che il virus approdasse anche qua. Arrivavo in sede, mi cambiavo in spogliatoio, facevo due chiacchiere con i colleghi e via in reparto. Ma ora non è più così. “Appena arrivate in sede saremo costretti a misurarvi la temperatura corporea – ci hanno comunicato dall’alto – sappiamo che può sembrare una situazione assurda e ci rincresce dover applicare misure così drastiche, ma dobbiamo agire per il bene di tutti i dipendenti e di tutte le loro famiglie”. In spogliatoio si entra uno per volta, si mantengono le distanze di sicurezza e si indossano i dispositivi di protezione che ci fornisce l’azienda.
I primi giorni mi sembrava di essere in un film, uno di quelli fantascientifici che dipingono un mondo apocalittico abitato da automi, o uno di quelli in cui la popolazione terrestre è stata quasi sterminata e ormai non restano che pochi esemplari della specie. Ma purtroppo era la cruda realtà.
Ogni giorno i reparti dell’azienda vengono sanificati da cima a fondo come anche i bagni, gli spogliatoi e gli ambienti comuni. Sembra quasi un paradosso: una fabbrica tirata a lucido come fosse il Buckingham Palace. Entrare in uno spogliatoio che odora di studio medico i primi giorni mi destabilizzava; a dire il vero continua a destabilizzarmi. Quell’odore di disinfettante forte che fa bruciare gli occhi, penetra nelle narici, in gola e non ti abbandona mai. Se chiudo gli occhi mi sembra davvero di sentire “prego, lei è il prossimo paziente”.
Ad inizio turno mi vengono consegnati i prodotti disinfettanti e i dispositivi di protezione da distribuire al reparto. Ed è mia responsabilità vigilare sull’impianto e garantire l’igienizzazione di tutte le superfici di lavoro. Non avevo mai pensato a chi potesse aver toccato pulpiti, tastiere e mouse prima di me, alla quantità di batteri e germi che si muovono sotto ai nostri occhi, che volano nell’aria. Ma da quando l’ho realizzato ho paura. Ho paura di toccarmi accidentalmente gli occhi con i guanti prima di aver sanificato la mia postazione, ho paura a consegnare i dispositivi ai miei colleghi, per quanto li conosca da una vita, non so quante volte al giorno si lavano le mani. Chissà se anche loro hanno le nocche screpolate a forza di strisciare e sfregare le mani con i disinfettanti a base di alcol. Volente o nolente si lavora con il timore che il virus possa scegliere te, che nonostante tutti gli sforzi per rispettare le direttive impartite dal Governo si possa portare a casa il virus inconsapevolmente.
A casa. Dovrebbe essere il posto più sicuro di questo mondo, le quattro mura in cui ciascuno di noi può sentirsi protetto, difeso da tutto ciò che rimane fuori. Ma ormai neanche a casa possiamo sentirci al sicuro. Questo virus maledetto può penetrare anche all’interno degli spazi più intimi delle nostre vite, tra i nostri affetti. L’angoscia di contagiare le persone che più amo a volte mi divora vivo.
Ma magari domattina sarà tutto finito. Magari torno a casa e al telegiornale ci comunicheranno che è stato solo un incubo orribile e che finalmente potremo tornare alla normale quotidianità. Io non smetto di sperare; la speranza è l’ultima a morire.