[il filo di sabbia] 03. Sabbia ovunque!
Giorno 7 – 01/10/2022
Sabbia ovunque. Quando Fiorenzo è tornato, alle due passate, ero ancora sveglio. Ha bussato alla porta di ferro del nostro alloggio (fa un rumore sordo, come quando batti su un bidone dell’olio) e gli ho aperto. Sembrava di creta. Entrambi lo sembravamo.
Questa mattina, nel corridoio, sulla sabbia accumulata si vedono le impronte disordinate dei passi della notte.
Fuori c’è vento, L’aria è rossa. Il cielo è grigio e il sole sembra la luna di un mondo lontano. “Pianeta saharawi chiama terra. Terra, rispondete!”
Mohammed Ali è in anticipo… Di oltre un’ora. Mi deve accompagnare ad Auserd. Per una volta il tempo è a debito. Devo sbrigarmi a sistemare l’attrezzatura e mettere un cambio in una sacca. Stanotte dormirò lì, a casa di Zacma, per tornare a Rabuni domattina, insieme a lei e alle donne del cous cous. Tempo da perdere e tempo da trovare. Tic tac, tic tac. L’aria si è fatta grigia, il vento si è calmato, tutto è immobile quando arriviamo. Il sole è ancora la luna di un mondo lontano.
La ricerca di casa di Zacma, il passaggio al protocollo della wilaya per avvisare che passerò lì la notte, la cooperativa di donne che cuciono le haima (la tipica tenda saharawi), la faccia incredula dei bambini quando gli faccio indossare le cuffie della telecamera mentre giro e sentono il suono del microfono, il giro nella wilaya per fare un po’di riprese di scorci e vita quotidiana… è stato un pomeriggio movimentato ma la giornata non è ancora finita.
Stare in famiglia non è come stare al protocollo. La casa è piena di bambini e sono diventato il loro gioco preferito. Inoltre la mia presenza ha attirato diversi vicini curiosi che si avvicendano per chiacchierare e aiutare Zacma in cucina. Si cena tardi e nell’attesa Baba, suo cognato, fa il tè. Braciere, teiere e bicchierini, il rito prevede tre momenti. Amaro come la vita, dolce come l’amore, soave come la morte.
Baba passa tre mesi nei territori liberati del Sahara Occidentale e un mese a casa. Nei territori c’è la guerra. Baba lavora con le equipe che si occupano di bonificare i terreni dalle mine. È una guerra che non conosciamo. Baba mi mostra con orgoglio le foto delle persone con cui lavora. Artificieri da tutto il mondo che vengono in Sahara occidentale con delle ONG per formarli e per aiutarli a bonificare la loro terra. Le mine sono milioni, sono state messe in buona parte delle loro terre liberate dall’esercito marocchino in ritirata. E poi c’è una striscia larga 500 metri e lunga 2700 chilometri, che corre lungo tutto il muro costruito dal Marocco negli anni 80. Il campo minato più grande del mondo. E tutto questo continua ad esserci perché le Nazioni Unite non riescono a portare a termine la missione Minurso, l’organizzazione di un referendum che possa definitivamente stabilire la sovranità sul sul Sahara Occidentale.
Pianeta saharawi chiama terra. Terra, rispondete!
La casa è avvolta dal silenzio. Il respiro della famiglia di Zacma che dorme fa da sottofondo. È stata una giornata intensa, devo ricordarmi di giornate così quando faccio la stessa affermazione in Italia. Provo a scrivere il diario mentre mi addormento sulla coperta spessa che hanno steso sul pavimento per me, ma sono troppo stanco. Mi addormento con il telefono in mano mentre penso, chissà se Fiorenzo è riuscito a partire da questo mondo lontano.
(TV)
Giorno 8 – 02/10/2022
Il tempo è sospeso.
Buio. Sono le sei. Sono al caldo, piacevolmente avvolto in una coperta enorme. C’è qualcun altro sveglio. Immagino sia Baba. Indugio. Passi, rumori in cucina, una porta che si apre, un’altra che si chiude. Bevo. Zacma mi ha lasciato una bottiglia e un bicchiere accanto al giaciglio, per la notte. L’acqua in bottiglia è un lusso riservato a me.
Facciamo colazione insieme, pane, formaggino e caffè. Loro bevono il tè. I bambini con lo zaino in spalla vengono a salutarci prima di uscire. La sorella di Zacma aggiusta il colletto del grembiule della figlia. Non c’è niente di esotico. I gesti delle famiglie sono il minimo comun denominatore dell’amore quotidiano.
Il tempo è sospeso. L’aria è prigioniera di questa cappa di sabbia sulle nostre teste.
Io e Zacma andiamo a Rabuni con una delle donne che parteciperanno al focus group ma scopro che non è nessuna delle 4 che avevo già conosciuto, sono partite con un’altra macchina. Peccato, probabilmente quando ho chiesto loro di organizzare questo trasporto non hanno capito l’importanza della continuità. Sicuramente non sono stato bravo a spiegarlo io. Un tempo avrei reagito diversamente. Oggi no, qui, in questa tregua della dimensione del tempo, mi prendo lo spazio per riflettere e andare avanti. Riprendo comunque il viaggio di questa donna.
Il Ceebu Jen è delizioso. Mangiamo tutti insieme alla fine del focus group con le cooperative avviate cinque anni fa da Sara con Nexus ER. Sono impostate in maniera da essere sostenibili con l’organizzazione della vita sociale e familiare delle partecipanti e, alla ripresa del conflitto, con gli uomini spesso al fronte, sono diventate alle volte cruciali nell’economia delle famiglie.
Qui il tempo non è sospeso. Me ne sono accorto dopo un po’ che sono entrato. All’inizio mi sono messo di fronte al tavolo centrale e ho cominciato a riprendere. Ai lunghi tavoli laterali una quarantina di donne di tutte le età. E ho sbagliato. Ero troppo immerso in quella dimensione ovattata, assopito.
Mi siedo con Abdala e Hamudi su un lato della sala, lascio che inizi l’incontro e comincio a sentire il tempo che riprende a scorrere.
Ho ripreso tutto l’incontro dalle spalle del tavolo centrale, all’esatto opposto della posizione “istituzionale” che avevo preso all’inizio. Ho spesso di quinta o di profilo Zacma, che traduce, e Sara che conduce l’incontro e prende appunti. Nelle prospettive schiacciate, le sfuocature, le quinte, muovono come ingranaggi le questioni pratiche e stringenti di queste donne.
Non c’è niente di trascendentale, ma allo stesso tempo ogni cosa è speciale. Le lamentele e le richieste di aiuto, le esperienze diverse che si scambiano per provare ad aiutare le cooperative in maggiore difficoltà, i cambi di attività o di produzione richiesti, le scaramucce interne per chi non partecipa abbastanza, il Ceebu Jen.
Finiamo di mangiare. Torno al protocollo.
Fiorenzo è ancora qui e Giulia Olmi, di CISP, un’altra delle protagoniste del documentario, è bloccata ad Algeri.
Il tempo è di nuovo sospeso. (TV)
sono altri due protagonisti del documentario.
Si stanno occupando del monitoraggio e della raccolta dati di quei rifugiati che vengono nei campi dai territori in guerra.
Un compito delicato e cruciale per le possibili emergenze dei prossimi mesi.
Giorno 9 – 03/10/2022
Khadija ha uno sguardo penetrante, asciutto, duro. Khadija non sa quanti anni ha. Vive con la nonna alla periferia di Auserd. Nell’ultimo lembo della wilaya, vicino alla strada. Ascolta in silenzio le domande di Zahura -una cooperante saharawi che lavora per Cisp- che, con tre sue colleghe, sta monitorando le famiglie di sfollati arrivate nei campi, passando dalla Mauritania, dopo aver lasciato Tifariti, una delle città dove il Polisario e l’esercito marocchino si affrontano con le armi.
Khadija ha visto la guerra. È timida, dice la nonna. A me sembra un lampo di energia pronto a brillare, imprigionato, soffocato dalla sua storia. Si protegge, leggermente sbilanciata su un fianco, dietro la figura fiera e ferita della nonna: sembrano un corpo unico. Ha gli occhi color giallo oro, come il quarzo “occhio di tigre”.
Khadija e sua nonna sono la terza e ultima famiglia che incontriamo in questa mattinata in cui il tempo è ancora sospeso dalla calotta di sabbia che in questi giorni non ci dà tregua. Tre storie simili, tante donne e bambini, ciascuno diverso.
Nella prima haima una donna magra si agitava e sfogava la sua rabbia con gesti nervosi e precisi, mentre le sue sorelle e nipoti cercavano di tenerla ferma.
Non so esattamente cosa abbia detto, parlava hassania e Zacma ci faceva solo dei riassunti finali per non interrompere il lavoro di Zahura, dovrò aspettare la traduzione una volta rientrato. La sua postura, il suono della sua voce, il suo modo di muovere le mani, trasmettevano una rabbia nervosa, frustrata, ma viva, combattiva.
Nella seconda una ragazza con quattro figli, che avrà avuto meno di trent’anni, mi ha detto che non sente suo marito da quando ha lasciato Tifariti. È rimasto lì a combattere. Non sa se è ancora vivo.
Sono tutti partiti all’improvviso, senza nulla, e senza nulla continuano a vivere. Con le poche cose che, i loro amici e parenti nei campi, gli hanno dato.
Khadija si ricorda di Claudio, lo ha visto a Tifariti qualche anno fa, in visita alla sua scuola. I progetti di Rete Tifariti nei territori liberati erano dedicati proprio alla scolarizzazione. Ora sono fermi, sospesi appunto, e si stanno concentrando sul lavoro con gli sfollati nei campi.
Intorno alla haima di Khadija e sua nonna è tutto arido, grigio, desolato. Le altre case sono lontane. Gocce in questo lembo di deserto non ne sono cadute. A poche centinaia di metri un serpentone di carcasse di automobili spezza il grigio del cielo e della sabbia. Ho la gola secca.
A mezzanotte passata sono seduto, spalle al muro a guardare il vento. Un uomo pota gli alberi nel cortile del protocollo.
Nel pomeriggio il cielo sembrava più blù, la cappa si stava lentamente dileguando. Fiorenzo può partire. Domani finalmente arriveranno Giulia e Marina, che hanno passato tre giorni ad Algeri ad aspettare che risprissero i voli.
Il mio tempo non è più sospeso, quello di Khadija invece lo sarà ancora. (TV)
[continua]
“Il filo di sabbia” è l’incrocio di storie di alcune persone che, per diversi motivi, si trovano a vivere nei campi profughi saharawi. Che sia per un breve periodo o per tutta la vita, devono misurarsi con un luogo unico, in un pezzo di deserto tra i più duri al mondo. Alcuni protagonisti li abbiamo già presentati, altri li presenteremo strada facendo: mentre il filo si dipana, continua il nostro viaggio.