[il filo di sabbia] 07. Inshallah!
Giorno 19 – 13/10/2022
I Saharawi non ti lasciano mai da solo, perché la cosa peggiore nel deserto è la solitudine, perché un uomo da solo nel deserto è un uomo morto. Ed è così che se ti aggiri da solo, anche in pieno giorno, per una wilaya, è molto probabile che qualcuno si avvicini e ti faccia compagnia. Solitamente sono i bambini o comunque ragazzi molto giovani. Possono affiancarti in silenzio, e in silenzio accompagnati, oppure chiederti come stai, come ti chiami, da dove vieni, prenderti per mano… fatto sta che nei campi non sarai mai solo. E così è stato. Solo una volta che mi sono allontanato per fare pipì, ho guadagnato 7 minuti di solitudine, ma già mentre mi appropinquavo a farla, sufficientemente in disparte (nel deserto appartarsi realmente è complicato) davanti ad un mucchietto di rifiuti carbonizzati, dietro il muro di cinta dell’unica costruzione che si ergeva per km appena fuori il mercato di Rabouni, una jeep picchiettava leggermente in testa alle mie spalle: Hamudi mi aveva raggiunto, chiedendo allarmato un passaggio ad un passante per venirmi a cercare, seriamente preoccupato per la mia scomparsa.
Stanotte sono ad Auserd, per andare al festival del cinema. Zacma si è offerta di ospitarmi così andiamo insieme alle proiezioni. Mentre prendiamo posto, seduti per terra davanti allo schermo all’aperto, vedo dei banchetti di artigianato. Tra mille raccomandazioni (e successivi messaggi WhatsApp a cadenza di un minuto l’uno dall’altro per sincerarsi che stessi bene) mi lascia andare da solo. E così ho conosciuto Mahfud. Stavo contrattando il prezzo di alcune magliette con scritto “Sahara Libre” quando si è avvicinato e ha cominciato a parlarmi in italiano. Mi ha aiutato a strappare un prezzo migliore e mi ha accompagnato per il resto della serata. Mahfud ha 15 anni. È sveglio ma non gli piace andare a scuola. Ha una malformazione al braccio e alla gamba destra e, da bambino, è stato in Italia per operarsi. Ci raccontiamo di noi sotto l’unico lampione che c’è nel piazzale, alle spalle dell’arena dove proiettano i film. ” Dovevo fare un’altra operazione ma mamma non voleva. Papà si, anche mia sorella, ma mamma no. Allora non ho voluto neanch’io. Adesso mamma è morta e vorrei farla. Ma sono troppo grande ormai.”
Mi racconta di Roma, della famiglia che l’ha ospitato, di suo padre che ora vive a di Dajla, della sua nuova moglie. Parla bene italiano, guarda sempre un sacco di video sul telefono, mi dice. Vorrebbe tanto tornarci, a Roma. Vuole vedere le foto della mia famiglia, sapere di me, del mio lavoro, della mia vita. Mi chiede se conosco la donna italiana che l’ha portato in Italia Rossana. Non so chi sia. pAd un certo punto si accorge che controllo spesso il telefono, gli dico che è Zacma che mi chiede dove sto e con chi sono. La conosce, sono vicini di casa. Mi prende per mano, come fossi un bambino, e mi porta da lei. Mi è capitato spesso che, in situazioni così, mi prendessero per mano. È un bel gesto, di confidenza e di sicurezza. È un gesto che noi abbiamo perso, per buona parte. Chi di noi prenderebbe un estraneo per mano? E invece è bello, dovremmo farlo più spesso. Dovremmo farlo ogni volta che è necessario. Ogni volta che qualcuno che incontriamo si è perso. Ed è così che passa la mia ultima notte nei campi, tra cinema, l’ospitalità di Zagma e della sua famiglia e Mahfud, il mio nuovo angelo custode. (TV)
Giorni 20 e 21
14-15/10/2022
L’orologio dell’auto di Brahim, che ci accompagna in lungo e in largo per i campi, segna sempre le 28:18 del 14/08/2000. Stanotte attraverso il confine del tempo e sarò di nuovo nel 2022.
Il venerdì è passato sornione, ho fatto tutto con molta calma. L’ultima riunione con Cisp, le valige, i conti del fondocassa, il pagamento del soggiorno al protocollo, la chiacchierata con le ragazze di Madrid di Médicos del mundo… Ho salutato Hamudi, Abdala, Zagma e poi Fayçal, Amin, Samir, Nasserine, Soumia e gli altri. Ci rivedremo, in šāʾ Allāh. In šāʾ Allāh vuol dire in šāʾ Allāh. Nelle nostre teste, oggi, non suona semplicemente come “se Dio vuole”. Ci ricorda che la nostra volontà passa per quella di miliardi di persone, attraversa migliaia di km, incrocia le sorti di una guerra e anche la volontà di Dio. Così se tutto si incastrerà come Dio vuole, in questo lento e costante scorrere di eventi che si chiama vita, ci rivedremo. Nel nostro piccolo sfidiamo lo spazio e il tempo, gli eventi della Storia, con le nostre fragili storie. Come gusci di noci navighiamo in qualcosa più grande di noi. Ma allo stesso tempo non c’è niente di speciale. Tutto vive di una incredibile naturalezza. Cos’ho fatto in tutto questo tempo qui nei campi? Cosa abbiamo fatto tutti? Niente. Sono andato a letto tardi e mi sono svegliato presto. Proprio come a casa. Ho mangiato, bevuto, lavorato. Ho corso, ho aspettato, ho riso, pianto, pensato, ho raccontato. Ho parlato, tanto. Io parlo sempre tanto. Anche troppo. Con l’aggravante che ho parlato tanto e male in almeno tre lingue diverse… spesso contemporaneamente. Ho scritto. Ogni notte ho scritto. Appunti, diario, poesie, pensieri. Ho messo in gioco un pezzo di me e ho imparato. Sempre poco, non è mai abbastanza. Ma ho imparato. Ho imparato che per avere tempo bisogna fare spazio. Ma che riempire quello spazio, ferma il tempo. Ho imparato che, pur volendo, non si può fare a meno di riempirlo, quello spazio. Qui, nei campi, il presente è una maschera appoggiata sul passato. Lo spazio è pieno, da molto tempo ormai, ma c’è ancora posto. E così tutto sembra scorrere, come la sabbia, in un’eterna clessidra, che scivola dalle mani e se la porta via il vento.
Il filo di sabbia.
In molti ci affanniamo affinché resti qualcosa di noi, del nostro passaggio in questo deserto. Che sia per un giorno o una vita intera, questo è un luogo di transito. Ciascuno ha tutto quello che gli serve per non restare. Spesso anche di meno. Perché in fondo ciò che accomuna tutti, è che qui non è casa nostra. Tutto d’un fiato. Due tramonti di fila che sembrano un attimo, il tempo di un respiro e sono a casa.
20/10/2022 – Cinque giorni dopo.
Bologna. Piazza dell’Unità verso le 11:30 profuma di detersivo scadente per i pavimenti e buon cibo. È una di quelle mattine autunnali in cui questa sembra una città cosmopolita del nord Europa.
Ho quasi completamente ripreso il ritmo consueto del mio quotidiano. Dei miei figli, Elia, quasi 5 anni, ancora mi dice che gli sono mancato, Anita, appena un anno, la sera che sono rientrato non mi ha riconosciuto, non so se per la barba o per l’odore di capra e sudore che mi portavo addosso.
In questi giorni ho cercato il vuoto. Non c’è. Qui non c’è silenzio, sabbia, spazio. Non c’è nessun pianeta alieno da chiamare, nessuna crepa nell’umanità. Il sole non sembra mai la luna e la luna spesso è coperta dai palazzi. Tutto è bilanciato, colorato, preciso, ogni cosa è illuminata, allineata, al proprio posto, come le icone dei nostri smartphone, come gli interni delle nostre macchine, delle nostre case. Io invece voglio portarmi dentro, il più a lungo possibile, l’imperfezione di questo viaggio, la casualità del vento e il Corsaro Nero, In šāʾ Allāh.
(TV)