[il filo di sabbia] 06. Il corsaro nero ci salverà.

Giorno 16 – 10/10/2022

C’è la luna piena. Il vento è gradevole, fresco. Il piazzale è deserto. È quasi mezzanotte. Oltre il muro un fitto latrare di cani randagi. Sono stanco. Oggi ho faticato molto. Ha fatto caldo, tanto, e siamo stati quasi tutta la mattina all’aperto. La pioggia di ieri è già un vago ricordo, svanito nel cielo terso della giornata, col sole che ha asciugato la sabbia. È evidente che in questo luogo la natura è predominante, scandisce i ritmi, condiziona gli umori, cambia i piani della giornata. Mi rendo conto di conoscere pochissimo la relazione che hanno i saharawi con la natura. Spesso ho persino pensato che la maggior parte di loro la affronti e basta, quasi come si fa con un nemico e il momento estremo di questa lotta è l’uso, a volte sconsiderato, del condizionatore. D’altra parte questa non è la condizione in cui si è sviluppata la loro cultura. Dai racconti che raccogliamo, già nei territori liberati -quindi ancora lontano dalla costa- ci sono corsi d’acqua, vegetazione e sia l’agricoltura che l’allevamento sono molto più agevoli. Mi ha stupito il fatto che, la maggior parte di chi vive nei campi, non ci sia mai stato. Almeno, è così se prendo in considerazione i racconti delle persone che ho incontrato. Zahura, quando parlava dei coloni tornati dai territori in guerra, diceva che sono berberi, che vivono “la giornata”, che non si adatteranno. Gli stessi parenti che li stanno ospitando qui nei campi, spesso, non sono mai andati a trovarli negli anni in cui c’era la tregua. Insomma, sembra quasi ci sia un “noi” e un “loro”, una condizione di “cittadino” che vive nei campi in Algeria e “colono” nomade che vive, o viveva, nelle città liberate al di là del confine.

Al pomeriggio, nell’ufficio di CISP, mi hanno mostrato da uno smartphone un video di Abdala che partecipa ad un format simile a Masterchef. È un format amatoriale ideato da Soumia, una delle cooperanti algerine che vive qui nei campi, per un progetto di educazione alimentare. Scopro così che il mio fonico ha vinto la scorsa edizione del Masterchef saharawi. È una piccola star. Lo guardo sorridente mentre parla, cucina, impiatta, è felice. Solo pochi giorni fa mi ha confessato di essere molto preoccupato per suo padre, militare del Polisario e sempre in guerra. Sono mesi che non sa nulla di lui, perché quando sono al fronte non posso assolutamente comunicare con i campi. Quel giorno aveva un sorriso amaro. Non come quello dell’intervista al Masterchef. Aveva paura. Mi ha detto che la guerra è brutta. Ora tutti penserete che sia una frase scontata e banale ma lo pensate solo perché non c’eravate e perché l’occidente ci consuma le parole, ci costringe continuamente a rinnovarle perché le svuota. Ma due persone come noi, qui, adesso, che non parlano la stessa lingua e che si capiscono con un vocabolario limitato, in situazioni più emotive, profonde, hanno altri canali per comunicare e vi assicuro che, quella frase, così semplice, è stata una stilettata allo stomaco.

Il padre di Abdala combatte una guerra per un territorio dove, probabilmente, il figlio non vivrà mai. Così come i suoi nonni prima di loro. Così come il padre di Hamudi, tornato dalla Spagna, dove ha vissuto per 7 anni con tutta la famiglia, per dare il suo sostegno al Polisario. Hamudi, che mi parla sempre di Martin Scorsese e di Tarkovskij, che è sempre circondato dalla tecnologia, che parla sempre di telecamere Sony, indossa cuffie giganti per ascoltare la musica, guarda i film in streaming e ha Spotify. Gli piacciono i Maneskin. Me lo dice con sguardo complice. Io non ho mai ascoltato una canzone intera, sorrido, e dico che li adoro anch’io, che sono meravigliosi. C’è la luna piena. Il latrare dei cani, il vento e una sottile malinconia che mi accompagna a letto.
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Giorno 17 – 11/10/2022

Cemento. Cemento ovunque. Gli operai che costruiscono la nuova scuola della wilaya di Boujdur vengono dal Mali.
Anche tra gli umili, c’è sempre qualcuno più umile, disposto a fare i lavori più umili.
Mi hanno fatto arrabbiare. Nonostante avessi chiesto se potessi riprenderli e avessi avuto il loro permesso, hanno espresso il loro disappunto alzando il tubo della betoniera con cui stavano finendo di cementare il massetto e schizzando cemento a doccia, ovunque, principalmente su me e la camera. Insomma, bastava dirlo e avrei messo via la camera ma, di certo, gli avrei tolto il divertimento. Vuoi mettere le risate a guardare il latticino col turbante correre per togliere il prima possibile una bella patacca di cemento dal centro dell’ottica? Vuoi mettere sentirlo urlare “Ineedwateeeeer” mentre corre goffamente lontano per mettersi in salvo (da notare la mia impreparazione all’emergenza, nella spontanea richiesta di acqua in inglese, nel deserto, in un paese dove si parla arabo hassania, ops). Insomma, sono stati un po’ stronzi e si sono fatti quattro risate. Tutti. Tutti tranne 1. Ho ripreso le sue mani, giovani, ricoperte di sabbia e polvere, annodare il filo di ferro sui tondelli che saranno l’anima dei pilastri di questa nuova scuola. Ho ripreso il suo viso, con l’espressione seria, affaticata dal sole e dal lavoro duro. È venuto in Algeria per lavorare. Sono venuti in Algeria per lavorare. Fayçal, il cooperante algerino di CISP, mi dice che sono migranti economici. Ne arrivano a migliaia, per via delle guerre civili e i colpi di stato che, da oltre 10 anni, stanno stravolgendo il Mali. Le donne lavorano nelle case, come badanti e donne di servizio, e gli uomini fanno principalmente gli operai nell’edilizia. Aggiunge anche che spesso sono disposti a lavorare in nero e che alcuni fanno dei traffici poco leciti. D’altra parte l’Algeria, grazie al gas naturale, è uno dei paesi più appetibili del nord Africa e il Mali è così vicino. Rifugiati che lavorano nei campi di rifugiati. Guerre, miserie e dignità che si incontrano.
Mi perdo nei miei pensieri mentre inquadro le cataste di foratini, i mucchietti di sabbia, cemento e brecciolini, le barre d’acciaio… Tra qualche mese tutto questo sarà una scuola. I corridoi risuoneranno al canto dei bambini, le aule si riempiranno di disegni, cartine, lavagne, qualche funzionario europeo parteciperà all’inaugurazione e tutto il loro lavoro, la fatica e anche le risate dello scherzo che mi hanno fatto col cemento, saranno un pezzetto dell’anima di quelle mura. Mi scappa un sorriso, non sono più arrabbiato, ma qualcosa di amaro resta.
(TV)


Giorno 18 – 12/10/2022

A Smara c’è una scuola antica, la prima nei campi. Costruita nel 1979 con i mattoni fatti di quella stessa sabbia che ti brucia gli occhi e ti si appiccica addosso. Questa scuola, lentamente, si sta consumando. Quando arriviamo i ragazzi sono tutti seduti per terra, ordinatamente, in fila per 2, nel piazzale. Tutti tranne quelli di turno che devono spazzare l’aula durante l’intervallo. I bambini saharawi si puliscono la scuola da soli. Certo, è un’impresa impossibile rimuovere tutta la sabbia che entra in classe per il vento e, soprattutto, quella che filtra dall’intonaco delle pareti. Perché, granello dopo granello, i mattoni di questa scuola si stanno sgretolando. La scuola sta implodendo. Le pareti si stanno inclinando verso l’interno e le crepe nell’intonaco sono spesse tanto da farci passare le dita di una mano.

E poi c’è la biblioteca. Chiusa. Inaccessibile. Esposta alle intemperie per via delle condizioni del tetto. Indugio un po’ tra i libri, chiusi in degli armadi con le vetrine. La maggior parte dei vetri sono rotti e la polvere entra a ricoprire i volumi. Ci sono letture per ragazzi, libri di storia, romanzi, classici… e un’intera collezione di Emilio Salgari. Il corsaro nero. Il primo romanzo che ho letto. È un’edizione spagnola ma la copertina e il dorso sono molto simili alla mia, che era della Mursia. Chissà come se la immaginano Maracaibo e l’isola di Tortuga i bambini saharawi. Chissà se giocano tra loro alle avventure dell’affascinante corsaro, fingendo di essere su un veliero che solca il mar dei Sargassi. Chissà se inscenano gli assalti alle golette cariche di tesori, innamorandosi delle figlie dei loro acerrimi nemici. Me li immagino che giocano mentre puliscono la classe, scopa, paletta e sacco sono le armi, i banchi e le sedie il ponte della Folgore, la nave del Corsaro Nero.

A giudicare dallo stato della biblioteca, dev’essere chiusa da molto tempo, ma i volumi sembrano tenuti abbastanza bene. Probabilmente continuano a darli in lettura ai ragazzi anche se non possono più accedervi. Uscendo mi cade l’occhio su un cammello di peluche, inerme, abbandonato in un angolo, tra altri rifiuti ricoperti dalla sabbia. Mamum, l’ingegnere saharawi che ci accompagna in questo giro, ci porta nel sito dove, entro la primavera prossima sorgerà la nuova scuola che sostituirà quella che abbiamo appena visitato. Per ora c’è solo una spianata irregolare, i lavori inizieranno a breve. Lo guardo da un angolo del rettangolo di sabbia camminare un poco verso il centro mentre mi descrive come sarà la scuola. Tutt’intorno ci saranno le aule, al centro il piazzale, lì i bagni per i disabili, l’aula dei professori, le cucine, la biblioteca… e laggiù, in quell’angolo del molo, ormeggerà la Folgore, il veliero a tre alberi del Corsaro Nero. Oggi, per via di un anticipo inaspettato, è stato l’ultimo giorno di riprese.

Stasera andremo al festival del cinema FiSahara, a Auserd. Non riesco a tenere in ordine le emozioni e, il volgere al termine di questo viaggio mi riempie di sentimenti non sempre concilianti.
(TV)

[continua]

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