[il filo di sabbia] 05. Radici.

Giorno 13 – 07/10/2022

La marcia verde. Sembra quasi un’immagine poetica. Il verde, in fondo, è un colore rassicurante. Il verde è alberi, boschi, mare, occhi… Ma di rassicurante, nella marcia di 350000 marocchini nel Sahara Occidentale del 1975, non c’è assolutamente nulla. Il 6 novembre passano disarmati il confine, ma il loro intento non è pacifico, e continuano a marciare per giorni. Per il popolo saharawi comincia una nuova epopea. Gli spagnoli non apriranno il fuoco e lasceranno rapidamente il paese nelle mani di Marocco e Mauritania (che nel 78 abbandonerà il conflitto per via di un golpe militare). Gli eserciti invaderanno il paese incontrando la resistenza del fronte Polisario. Buona parte della popolazione saharawi sarà costretta a rifugiarsi in Algeria per sfuggire alla guerra, che rischiava di diventare un vero e proprio genocidio. La comunità internazionale resta sostanzialmente a guardare.
Ancora oggi il Marocco festeggia quella giornata come simbolo della sua sovranità su quei territori.
Sembra una storia d’altri tempi ed effettivamente lo è. Solo che, in tutti questi anni, non è cambiato nulla, quella marcia il tempo se l’è mangiato.
E il tempo sembra aver mangiato anche il futuro di Aicha e Rachid. Sposati a febbraio, nei territori liberati, pochissimi giorni dopo sono dovuti scappare dalla guerra. Ora vivono qui, nell’haima acquistata per la loro vita insieme, ma senza più nulla del loro passato. Stanotte il vento ha riportato Dajla nel pianeta lontano. La sabbia ha avvolto il respiro e annebbiato il tempo, ma nella loro tenda si sente il calore delle loro vite. Protetto dall’abisso che c’è fuori, nonostante la crudeltà della loro storia, sento l’energia della speranza.

C’è un’enorme parabola, in un cortile, tra resti di mobili da ufficio consumati dalle intemperie. Sull’unico tavolino ancora in piedi una radiolina a transistor. Tutto è immobile, muto, insabbiato. Se la radio potesse suonare la canzone del carllon gonfiabile sono certo che la parabola gliela farebbe arrivare. E che i bambini verrebbero a prenderci colorando il cielo con il loro vociare (TV)

Giorno 14 – 08/10/2022

Stamattina un operaio ha cominciato a pavimentare il gazebo al centro del protocollo. Ha steso la sabbia presa dal piazzale, mista al cemento, sul vecchio massetto dissestato e, con un martello di legno, batte le mattonelle per farle affondare un po’, una accanto all’altra. Non riesco a capire come si possano fissare in questo modo. Ma in fondo qui tutto si tiene sulla sabbia. E tutto si fonde nella sabbia. Negli anni ci sono stati alcuni alluvioni e le prime case d’argilla si sono letteralmente sciolte. Se ne vedono ancora, senza tetto, consumate, un po’ ovunque. Le gocce nel deserto fanno anche del male.
Oggi è Il Mawlid di Maometto, la ricorrenza della nascita del profeta, iniziata ieri sera al tramonto. Proprio ieri, alla cena con i ragazzi di CISP c’era la musica, le candele, una ragazza che faceva l’henné e si ballava. I ragazzi sembravano fiammelle nere in silhouette, che crepitavano nella luce fioca del cortile. Ho pensato che sarebbe stato un bel finale di un film. Ci sono andato dopo aver salutato Claudio, Sara, Michele e Piero che sono partiti. Restare più tempo ha moltiplicato gli incontri ma anche i saluti. Comincio a sentire un po’di malinconia.
La ragazza che faceva l’hennè con gli stencil mi ha chiesto se ne volevo uno, ho accettato.
C’era anche Nasserine, che è venuta da Algeri per fare delle formazioni alle assistenti sociali su come riconoscere le disabilità nei bambini in età precoce. “Che ti è sembrato del corso?” Mi chiede oggi a pranzo, appena finite le riprese della sua formazione. “Sono molto diversa da ieri sera? Avresti immaginato che fossi così seria?” Aggiunge ridendo. Si riferisce alla cena della sera prima. Le dico che in realtà non l’ho trovata per niente seria, anzi. Il suo modo di lavorare, di interagire con le donne, oggi, è stato molto empatico. Non capivo cosa dicesse, parlava hassania, ma l’atmosfera era accogliente e partecipativa da entrambe le parti. Si vede che ha fatto un enorme lavoro di preparazione culturale per lavorare con loro, per trovare la chiave con la quale affrontare argomenti così delicati, in una società che ha la famiglia, i suoi equilibri e la sua organizzazione, al centro della propria vita. Ha imparato il loro dialetto, ha assimilato la loro cultura e ha adattato non solo il suo modo di insegnare ma anche le tecniche alle loro necessità. Siamo nel centro nazionale saharawi per l’empowerment femminile, le donne che seguono Nassarine sono assistenti sociali. Questa non è una goccia nel deserto, questo è un oceano nel quale queste donne hanno scelto di navigare, per il bene della propria comunità. Perché ostacoli già insormontabili nel “nostro” mondo qui nei campi diventano abissi spaventosi. La dignità dei saharawi, l’organizzazione precisa e metodica del Polisario, spesso ci fa perdere di vista i problemi il disagio sanitario, la malnutrizione, la mancanza di strumenti adeguati per occuparsi dei più fragili… e queste donne si sono messe in gioco per superare i limiti della propria condizione di rifugiati. Pensiamo spesso che un rifugiato abbia bisogno dell’indispebsabile perché non ha niente, ma in realtà ha bisogno di tutto, perché la sua condizione gli preclude la possibilità di guadagnarselo. Queste donne, oggi, qui, non lo stanno semplicemente guadagnando, lo stanno costruendo.
Zahura, le donne delle cooperative, le rifugiate, le assistenti sociali. Le donne saharawi che incontro in questo viaggio mi danno l’impressione di essere un’avanguardia, per questo popolo, protesa verso il futuro.

È quasi sera, le giornate si sono accorciate e sono seduto al crepuscolo sotto il gazebo, accanto al pavimento in costruzione. È finito per un quarto. Le mattonelle sono lucide e la sabbia bagnata. Penso a quanto durerà. Forse qualche mese, forse un anno. Come tante cose qui, non è fatta per restare. Come la tela di Penelope, si fa e si disfa, senza tregua, con operosa lentezza. Ma poi ripenso a stamattina, a Nasserine, alle assistenti sociali, al centro d’avanguardia femminile nei campi e sento che lì davvero un altro piccolo pezzetto è stato fatto. Fondamenta fatte per durare, perché affondano le radici nelle persone e non sulla sabbia. (TV)

Giorno 15 – 09/10/2022


Stanotte ha piovuto. E ancora piove. Mi sono svegliato più volte con il rumore delle gocce sulla lamiera. Poi è andata via la corrente. Preparo il caffè nella penombra del crepuscolo, che timidamente schiarisce la cucina. Oggi si parte presto. Andiamo ad El Aaiun a visitare due scuole. Il cielo è un immenso panneggio di nuvole spesse, di un blu grigiastro e vitreo, che sfumano l’una nell’altra. La pioggia continua, a intermittenza, e ci accompagna lungo il tragitto. Guardo dal finestrino i cavi appesi alle lunghe file di tralicci. Chissà se la corrente è tornata. Anche la connessione è andata via. Mi faccio coccolare da questa sensazione di isolamento. Passiamo davanti ad un gruppo di tralicci appena posati, ancora senza cavi. Qualche giorno fa, viaggiando lungo la stessa strada con Claudio, chiesi all’autista di fermarsi per riprenderli. Da vicino sembrano monoliti alieni pronti per un rito pagano. Mi girai tutt’intorno e notai che la fila continuava ad angolo retto anche dall’altra parte della strada, fino a sparire sulla linea dell’orizzonte. Prima dell’arrivo dei saharawi questo altipiano era immacolato. Brutto, certo, pietroso e sterile, ma immacolato. Adesso, anche fuori dalle wilayat, è un fitto reticolo di linee e curve riempite dalle tracce dell’uomo e del suo consumo. Bottiglie di plastica, scatolame, mucchi di rifiuti carbonizzati, carcasse di automobili, pali e filo della luce… solo ogni tanto, lontano dalla strada e dalla striscia più consistente di rifiuti, la haima di qualche rara famiglia di berberi e pochi pastori con le loro capre e i loro cammelli. Questi nuovi pali hanno l’aria minacciosa. Hanno l’aria della stanzialità. Fino a pochi anni fa l’elettricità, non c’era. C’erano pochi gruppi elettrogeni e molti pannelli solari. I primi pali della luce hanno portato cose indispensabili e molta tecnologia, frigoriferi, lavatrici, strumentazioni mediche, smartphone, TV, computer… Hanno portato sviluppo, opportunità, migliorato la qualità della vita, della scuola, dei servizi, e concesso qualche piccola comodità in un mondo scomodo e difficile. Pian piano sono arrivati i condizionatori, che trovi spesso utilizzati in maniera esagerata e poco attenta. Domani chissà, questi enormi pali della luce, tanto più grandi dei vecchi e tanto più minacciosi, cosa porteranno. Forse una fabbrica, forse altre strade, servizi produttivi, amministrativi, commerciali, militari… forse la definitiva stanzialità.
Ricordo che con Claudio ridemmo pensando a quanto sembrassimo buffi e stupidi agli occhi degli automobilisti di passaggio e di Brahim, che ci accompagnava. Fermi nel nulla più assoluto, a fotografare i pali della luce, apparentemente senza alcun senso logico. E invece stavamo guardando oltre quei pali, cercando di indovinare un futuro imprevedibile, finora sempre beffardo per il popolo saharawi, un popolo resistente ma fino a che punto? Dove non sono riusciti il tempo, le condizioni estreme, al limite della vivibilità, una lunga guerra, un’attesa estenuante, una quantità enorme di difficoltà fisiche, umane, psicologiche, sta penetrando altro. Altro che porta bene e che porta male. Che poi chi deciderà se è un bene o un male non saremo certo noi, ma loro. Cosa sarà di questi bambini che vedo ogni giorno, che come tutti i bambini del mondo, anche se con qualche difficoltà in più, saranno sempre connessi. Cosa sarà di chi oggi nasce già con una “condizionata” opportunità di aria fresca. Cosa sarà quando i desideri di realizzazione e i modelli di godimento dei loro amici fuori dai campi saranno sempre più presenti e a portata di mano? Basterà, al Polisario, l’obiettivo della loro eterna lotta per una terra promessa, a tenere unito questo popolo, basterà l’eroico sacrificio per un futuro in un luogo che, giustamente, gli appartiene, ma che, generazione dopo generazione, rischia di diventare un inutile simulacro? Oppure quando vedranno le prospettive e il futuro dei loro amici cooperanti, dei ragazzi algerini, spesso loro compagni di università, quando lo sviluppo dei campi darà loro altre prospettive, quando questa guerra perpetua avrà esaurito il suo anelito… desidereranno trovare semplicemente pace, un posto nel mondo, lanciare un segnale da questi monoliti nel deserto verso il pianeta terra e abbandonarsi ad una diaspora o, più semplicemente, cercare un posto migliore dove rifondare il proprio futuro?
E se così fosse cosa sarebbe della loro identità, oggi così identificata con la lotta e la resistenza?
Perché in fondo cos’è che caratterizza un popolo, una cultura?
Sarebbero forse meno resistenti o semplicemente meno idealizzati stereotipati, ai nostri occhi occidentali? Io stesso, in questo viaggio non sto scoprendo alcuni aspetti che stanno sotto la superficie, pur avendola solamente scalfita?
Questi pali conficcati nella sabbia sono dubbi, domande, pensieri….

Sarà una giornata scomoda, di gocce di pioggia che arrivano all’improvviso e si appiccicano addosso. Di sabbia è bagnata che sembra terra battuta. Di vento che brucia gli occhi. Senza connessione e con la corrente che viene e va. Una giornata che scorrerà tra le corse dei bambini, variopinti bicchieri di plastica dal sapore pop dai quali bevono la zuppa per merenda, tè offerti al volo tra una ripresa e l’altra, il coro di una classe che vibra malinconico per i corridoi di una delle scuole. Sono canti che ho ascoltato più volte in questi giorni su RASD TV quando trasmette le parate. Ma qui hanno un altro sapore. Non hanno l’aria marziale che hanno in TV, con i bambini in divisa bianca e nera e l’aria tutta seria. È un canto fresco, divertito, sottile, che sa di spensieratezza. Guardo Abdala davanti ad una classe, in fondo al corridoio della scuola, mentre registra il coro e, improvvisamente, tutti i pensieri della giornata svaniscono. (TV)

[continua]

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