[il filo di sabbia] 02. Il presente è una terra straniera
Giorno 4 – 28/09/2022
Il cielo è grigio per la maggior parte del tempo. Alzo la testa per un attimo e guardo lontano. Realizzo d’un tratto il colore del cielo. Il sole non è una palla gialla in un punto, come nei disegni dei bambini, ma un’enorme macchia lattiginosa che si spande tingendo il cielo di grigio fino all’orizzonte. Questo enorme orizzonte lontano, circolare, onnipresente, interrotto da qualche sottile palo della luce e dalla casetta costruita per riparare il motore elettrico della pompa che Fiorenzo sta revisionando.
È un grigio che indulge appena ad una leggera sfumatura carta da zucchero. È un grigio che si impadronisce di tutto. Comprendo in quell’attimo il significato della parola “irreale”.
È un’emozione completamente nuova, nient’altro che qui, ora. Mi sorprendo a pensare al presente, a un presente assoluto, che non puoi collegare a nessuna esperienza precedente. Non intendo semplicemente qualcosa di nuovo. Mi riferisco alla perdita di ogni punto di riferimento: nessun appiglio, nessun approdo, niente di familiare, niente di rassicurante… e stranamente questa sensazione mi conforta. Esiste un presente così, puoi percepire un presente così, ed è un luogo ancestrale.
Un tubo che perde, sordo, una goccia dopo l’altra, come se cadessero nel vuoto. Il motore del presente assoluto pompa l’acqua per l’orto sperimentale. Ecco dove finisce, idealmente, quella goccia nel deserto conquistata ieri da quel manipolo di eroi: tra ulivi, fichi, melograni, piccoli campi seminati, cisterne, manichette nere stese tra un solco e l’altro, una casetta che fa ombra alle piantine in coltura… Sarebbe facile dissolvere la mia sensazione nel ricordo rassicurante delle campagne dei nonni, a Gaeta, ma quel tubo che perde in silenzio non mi lascia andare. Ad ogni goccia affiora un immagine di questi campi nei quali, su un presente assoluto, un popolo continua a costruire la vita.
Andando via passiamo davanti a un recinto per i cammelli. Un cerchio di automobili poggiate su un fianco. Chiedo all’autista di fermarsi per poterlo riprendere. Carcasse, lamiere, carrozzerie nude, svuotate, roventi.
Il presente è una terra straniera. (TV)
Giorno 5 – 29/09/2022
Stamattina mi ha svegliato un uccellino. Si è poggiato sulle sbarre della finestra e ha cinguettato. Fiorenzo è già partito per revisionare le pompe in un’area militare del Polisario e io sono rimasto a godermi un po’di più il letto.
Oggi mi alzo più tardi e vado ad Auserd per visitare tre cooperative di donne che fanno il cous cous, seguendo Maueina, la delegata del loro sindacato. Mi hanno già detto di prepararmi perché mi offriranno molti dolci. E così è stato.
Siamo in attesa. L’autista dell’auto che mi doveva accompagnare ad Auserd non ha avuto il permesso dal protocollo per trasportarmi da una wilaya all’altra.
Aspettiamo un’altra macchina.
È il tempo da perdere e quello da trovare. L’attesa fa parte del gioco e alla fine il gioco non è così male. Il sole non è ancora alto e sotto l’incannucciato del protocollo si sta molto bene.
Yadijetu, la donna della prima cooperativa, mi ha preparato un sacco di dolci.
Biscotti farciti, waffle di cioccolata, piccole paste rosa che si sciolgono in bocca, tutte ordinate, nei vassoi argentati, in dei pirottini di velo bianco a pois. La sua cooperativa si chiama أمل (‘amal), speranza, lo dice sorridendo con una punta d’orgoglio. D’altra parte chi più di loro, che aspettano da quasi 50 anni di poter tornare alla propria terra, può comprendere la speranza?
Perché la speranza va compresa, è un sentimento conflittuale, che ti spiazza, soprattutto quando la incontri negli altri. Provoca emozioni forti, tenerezza, incomprensione, stupore, empatia, insofferenza, compassione, ammirazione.
Mentre giro, tra un boccone e l’altro, Maueina e Yadijetu parlano tra loro in hassania. Zacma, la mediatrice, mi aiuta ad orientarmi. Per molto tempo è mancata l’acqua buona, il prezzo del grano e della farina sono aumentati, ci sarebbe bisogno di organizzare meglio le forniture e di aiutarsi tra cooperative a rispettare gli ordini. Si preparano al focus group che faranno con Sara tra 3 giorni in cui cercheranno di pianificare insieme il futuro di queste attività
Fatimettu è un’arzilla nonnina. Ha la casa piena di bambini. Mi accoglie con il tè e mi regala un sacchetto di cous cous. Ha l’aria di chi la sa lunga e risponde con aria divertita alle mie domande. Non sa se continuerà a far parte della cooperativa. Gli affari, a suo avviso, non vanno bene ma, quando le chiedo come ha intenzione di regolarsi, mi risponde che non conta la sua singola opinione. Tra tre giorni si incontreranno tutte e insieme capiranno la strada da prendere. Dopo la speranza, la saggezza. È un pomeriggio di lezioni di vita, a quanto pare.
“E questo è il cous cous senza glutine”.
Enghia, della cooperativa Gargarat, ha perfezionato la ricetta di un cous cous di miglio.
I saharawi sono il popolo con il più alto tasso di celiachia al mondo. Il 5,6%. È un’enormità. La media degli altri paesi è l’1%. Ma il cous cous è patrimonio nazionale, è il pranzo della domenica, anzi del venerdì, come puoi farne a meno?
Ci ha accolto nella sua haima, la tipica tenda saharawi, e parla anche lei delle tante difficoltà che incontra per riuscire a portare avanti la produzione. L’acqua. È sempre una questione. La goccia nel deserto. Il granello di cous cous. Ce ne sono milioni in quei sacchi che tiene ad un angolo della tenda, da affondarci le mani e farli scorrere giù come quando giochi con la sabbia. Ma questi fanno rumore. La goccia ha trovato il suo suono.
Due bambini litigano spingendosi ad un lato della strada, tra pochi minuti saranno di nuovo amici. Lì inquadro dal fuoristrada mentre il sole rosso del tramonto ci inghiotte sulla via del ritorno. La giornata è stata dolce, come uno dei tre bicchierini del rito del tè saharawi, come il cinguettio del risveglio, come i biscotti di Yadijetu. (TV)
[il filo di sabbia] Zacma è una delle nostre mediatrici. Ha imparato l’italiano in Toscana, dove ha vissuto per seguire un programma alimentare per via della sua celiachia. Da quando è tornata lavora spesso sui progetti di cooperazione con personale italiano. È molto più che una traduttrice, è un’interfaccia preziosa con la cultura saharawi.
Giorno 6 – 30/09/2022
Fiorenzo alla fine non è potuto partire, lo hanno rimandato indietro dall’aeroporto. C’è una piccola tempesta di sabbia, ma sufficiente a far si che l’aereo non possa decollare.
Mentre tornavamo da Boujdour, al tramonto, il sole non era rosso ma grigio ocra e sfumava dietro una coltre di sabbia. Poche ore dopo eravamo circondati dalla polvere. Non ne avevo mai vista una. Ad un primo sguardo sembra nebbia.
Resto fuori qualche minuto a girare un dialogo tra Fiorenzo e Claudio. Sospettano già che non si potrà partire ma bisogna comunque arrivare in aeroporto per saperlo.
Me l’aspettavo completamente diversa questa partenza. Con Paolo, lo sceneggiatore, avevamo ipotizzato abbracci, cene di addio con i saharawi conosciuti in questi giorni, momenti emozionanti con i colleghi e invece, fino all’arrivo della sabbia, tutto sembrava scorrerie come le altre sere anzi, forse con un pizzico di calma in più. Quando Fiorenzo apre la porta, verso le 22:00, per fumare una sigaretta prima di partire, comincia a salire una specie di tensione, strana, fredda, come se questa nebbia polverosa spegnesse ogni eccesso. Prendo la telecamera -i dubbi sulla partenza, i problemi sulla disponibilità dell’auto, la scorta che aspetta, l’autista che non arriva- è buio, c’è polvere persino in casa, faccio fatica a mettere a fuoco, penso, ma in realtà è a fuoco, solo che attorno a me è tutto sfumato, morbido -Sara che torna per dire a Fiorenzo che la scorta è pronta, Fiorenzo che esce dalla stanza facendo scorrere le valige suo pavimento, che fa avanti e indietro nel corridoio per salutarci tutti- la concitazione sembra rallentata, l’aria è secca e salata, si comincia a vedere il colore della sabbia depositata su ogni cosa, sulle valige di Fiorenzo, sul pavimento -abbasso per un attimo la telecamera per abbracciarlo, la tiro nuovamente e lascio che apra la porta davanti all’obiettivo mentre esce, accompagnato da Sara e Michele- li vedo dal monitor scivolare in questo dipinto fluorescente e impiastricciato, lasciarsi assorbire dal lato più buio del piazzale. Sono tentato di correre nella sabbia per raggiungerli e riprendere la partenza con la scorta del Polisario ma, alla fine, desisto. Un po’ perché mi sembra un’ottima chiusura, indefinita, disorientante, con questo dubbio sulla partenza del volo, un po’perché non voglio mettere troppo a rischio l’attrezzatura, non ho nulla per proteggerla da una situazione così, fuori dal piazzale il vento sarà sicuramente più forte, la sabbia si alzerà molto di più, e la telecamera deve funzionare bene per altre due settimane, non voglio rischiare che la sabbia si infili ovunque. Rientro, chiudo la porta alle mie spalle e comincio a spolverare l’attrezzatura.
Quando Michele rientra per prendere il telefono (l’autista non è ancora arrivato e la scorta lo sta aspettando, bisogna chiamarlo per sapere se è tutto ok) mi viene voglia di uscire con lui. Avvolgo malamente il capo nel turbante, con un lembo della stoffa tengo coperti naso e bocca, e mi lascio avvolgere anch’io dalla tempesta. Come sospettavo, all’uscita del piazzale il dramma freddo si trasforma: il vento ha qualcosa di spaventoso, la sabbia sferza molto di più e si infila pungente negli occhi. Si fa fatica a camminare nell’oscurità e sul terreno sconnesso. Non sarebbe stato il finale giusto per la partenza di Fiorenzo, sono sereno sul fatto di non averlo ripreso. Ma faccio un paio di video con il cellulare perché mi sembra il finale migliore per questa pagina di diario.
(TV)
[continua]
“Il filo di sabbia” è l’incrocio di storie di alcune persone che, per diversi motivi, si trovano a vivere nei campi profughi saharawi. Che sia per un breve periodo o per tutta la vita, devono misurarsi con un luogo unico, in un pezzo di deserto tra i più duri al mondo. Alcuni protagonisti li abbiamo già presentati, altri li presenteremo strada facendo: mentre il filo si dipana, continua il nostro viaggio.