[il filo di sabbia – diario di un viaggio nei campi saharawi] 01. Una goccia nel deserto

“Il filo di sabbia” è l’incrocio di storie di alcune persone che, per diversi motivi, si trovano a vivere nei campi profughi saharawi. Che sia per un breve periodo o per tutta la vita, devono misurarsi con un luogo unico, in un pezzo di deserto tra i più duri al mondo. Alcuni protagonisti li abbiamo già presentati, altri  li presenteremo strada facendo: mentre il filo si dipana, comincia il nostro viaggio.

Giorno 1 – 25/09/2022

Algeri ha un profumo acre. È acre il retrogusto di mare che lascia, asciutto come il sale. È acre la sensazione di casa che mi provoca mentre, col finestrino aperto, mi lascio investire dall’aria che arriva dritta sulla faccia. Il viaggio con Fiorenzo, entrambi sigillati nel Frecciarossa da Bologna, nel regionale per Fiumicino e poi sull’aereo per Algeri, mi aveva intorpidito e ho bisogno che l’aria mi dia una sveglia, per prendere la camera e girare qualcosa di questo viaggio in auto con Sara, verso il convento di suore che ci ospiterà questa notte.
Il nostro autista Abdallahi, un giovane saharawi che fa il tassista in città, ha studiato a Cuba e scopro che questo ci salva dall’ascoltare necessariamente musica mauritana o algerina durante il viaggio. Parte il suono familiare di una canzone d’amore, che ricorda quelle dei neomelodici dei primi 2000. Sigarette tra due dita sullo sterzo, l’asfalto liscio e consunto riflette i lampioni come fosse liquido, i vetri sporchi e leggermente oscurati, il primo piano si Sara nello specchietto retrovisore, aria che scorre con i camion del porto, gru, giardini, palazzi scrostati ed edifici monumentali scivolano tra un brano e l’altro dentro la mia telecamera e poi vengono inghiottiti nella notte.
È stato divertente rendersi conto, all’improvviso, che il nostro autista non aveva idea di come raggiungere la nostra destinazione, quando vidi per la terza volta lo stesso poliziotto ad uno dei tanti posti di blocco incontrati lungo le strade. Poi cominciai a notare più volte gli stessi hotel, le stesse rotatorie, gli stessi edifici e così via.
Fu così che ci volle un solerte poliziotto per salvarci da questa affascinante samsara fatta di telefonate tra autisti, indicazioni approssimative, indicazioni del navigatore incomprensibilmente ignorate, sigarette e musica cubana.
Italiennes? Bienvenue en Algerie. È saltato sul sedile di dietro, accanto a me, e ci ha portato a casa. O meglio, a quella che, per una notte, è stata la nostra casa.
Dalla finestra della mia stanzetta, nell’ostello della Maisone Diocesane di Algeri, la città, è luminosa, parzialmente nascosta dagli alberi, sotto la collina. Silenzio, da dietro al vetro, un attimo prima di dormire, scatto una foto, mi infilo nel letto e, dopo un giorno di viaggio, lascio finalmente il sonno arrivare. (TV)

Aeroporto di Algeri, in attesa del volo per Tindouf.
Sara, cooperante di Nexus ER e coordinatrice della prima parte della nostra missione. Fiorenzo, un tecnico di elettropompe in pensione che ha accettato, da volontario, un compito delicatissimo: prendersi cura dei sistemi di irrigazione per degli orti nel deserto. Praticamente Mission Impossible. 💪🏼
Questi orti sono importantissimi per migliorare le condizioni alimentari dei saharawi, per ora ancora dipendenti dagli alimenti confezionati che arrivano con gli aiuti umanitari. Questo ha portato a numerosi problemi di salute che, col tempo e con iniziative come queste, la cooperazione internazionale, insieme alle autorità saharawi, sta provando a risolvere.
Ci riusciremo?

Giorno 2 – 26/09/2022

Giallo, blu, bianco, rosso, verde… dietro l’arco della navata centrale, lì dove andrà l’altare della chiesa in ristrutturazione, un ponteggio, sul quale una donna col capo coperto sta dipingendo un affresco religioso. I santi, con l’aureola, spiccano candidi sui colori accesi e luminosi del paesaggio circostante. Indugio davanti ad una feritoia che si apre sotto la campana dell’eglise de la Maison Diocesane, a riprendere in silenzio questa immagine rassicurante. Ho appena lasciato la riunione operativa tra i cooperanti che stavo girando per rubare qualche esterno e, tra un cortile interno e una vista sul Algeri -brulicante di auto sulle strade enormi che circondano il quartiere diplomatico- ho scoperto questo piccolo segreto. (Scoprirò, poco dopo, che lo tengono realmente nascosto perché l’artista non ha ancora deciso delle cose importanti; questo mi fa sentire partecipe di qualcosa di prezioso, incompiuto ma prezioso)
Sara e Fiorenzo hanno appena finito di parlare di pompe che si rompono, pezzi di ricambio e impianti da revisionare nel corso del loro fittissimo programma e a momenti dobbiamo scendere per il pranzo.

I nostri autisti sono in anticipo. Ho indugiato un attimo di più per spostare alcune cose nei bagagli e quindi, io, sono in ritardo. Va sempre così, è difficile essere a tempo quando stai andando nei campi. Devo scontare un periodo di assestamento. No, non è lo shock culturale, perché semplicemente non è uno shock, è proprio la necessità di spostare il proprio baricentro ed essere pronto ad assorbire la realtà dei giorni, del lavoro che mi aspetta. Più lo assecondi e meno traumatico è.
Attraversiamo in auto la stessa città di ieri notte. Io questi quartieri li ricordavo bagnati, morbidi, sotto i lampioni, e invece sono secchi, netti, questi edifici enormi si confondono con il colore del cielo, grigio e ocra come la sabbia, ma emergono con le loro linee regolari e precise, tra palazzi e case scrostate.
Questa è la moschea più grande di tutta l’Africa, l’hanno inaugurata da due mesi.

Ovviamente non siamo in ritardo, anzi, abbiamo due ore di anticipo. Il traffico che si aspettavano non c’era. È il ritmo da prendere, il tempo da perdere e quello da trovare e va bene cosi. Nell’attesa prendiamo un caffè tutti insieme e continuano a conoscerci. Con noi ci sono Pierangelo e Michele, di veterinari senza frontiere che, con Sara, dovranno visitare centinaia di capi di bestiame, tra capre e cammelle da latte. Si faranno un bel mazzo, loro.

Il deserto stinge, ti si attacca alla pelle e gli cambia colore. Mi lavo il viso prima di andare a dormire, qui al Protocollo di Rabouni, e vedo l’acqua scorrere, leggermente ambrata, nel lavandino. El polvo. È ovunque e finisce inevitabilmente sopra di te. Lo sentivo nelle narici e in gola già nell’aria che entrava prepotente dal finestrino dell’auto. La polvere ti accompagna negli innumerevoli viaggi da fare durante la missione. Accompagna gli abbracci, come quello che ci siamo dati io, Hamudi e Abdala quando ci siamo finalmente rincontrati. Uno di quegli abbracci di chi non sapeva se si sarebbe mai rivisto. Ci unisce un’amicizia ideale, lontana dai vincoli di quelle quotidiane ma densa della stessa emozione, profonda e sincera. Mi guardo allo specchio, lo sguardo stanco, la barba bagnata, una striscia di sabbia rossastra, residuo di una ditata umida, che sembra l’ornamento di un nativo d’America, e penso: andrà come andrà, siamo pronti per quest’avventura.
Ero così emozionato che non ho fatto una foto ai miei compagni di viaggio, ma tanto li vedrete nei prossimi giorni. (TV)

Hamudi e Abdala, l’aiuto regista e il fonico del documentario.

Giorno 3 – 27/09/2022

Sui denti. Non sono abituato a respirare a bocca chiusa, quando sono concentrato, e la polvere del Sahara mi si attacca ai denti. Soprattutto agli incisivi. Non è una cosa visibile, la sento io, col labbro, quando mi rendo conto che l’ho tenuto sollevato a lungo. Mi ricorda quando ero bambino e c’era sempre qualche adulto a dirmi: chiudi quella bocca!
Per fortuna non è servito a molto, perché ha il potere di distrarmi quel tanto che mi permette di guardarmi intorno, mentre sono assorto nelle riprese. E guardarsi intorno è importante, per cercare di guadagnare un punto di vista più esterno, che aiuti la storia ad essere più comprensibile, a non perdere la prevedibilità (e l’imprevedibilità) del presente, ma anche per ricordarmi che intorno a me c’è il deserto. Tutto questo è nel deserto, nell’Hammada, fatto di polvere, sabbia e rocce, tutta questa vita attorno a me è nel deserto, da anni ormai. Da prima che nascessi. E quello che sta succedendo ora, tra le carcasse, le case di mattoni d’arglilla consumate dal vento e dalla pioggia, gli stracci consumati che affiorano nella sabbia, i recinti delle capre fatti con le portiere della macchina e gli scheletri di materassi a molle, tutto quello che sta succedendo e che può sembrare insignificante, è il centro del mondo. Un gruppo di esseri umani che smonta piccoli mostri meccanici per farli tornare a funzionare, affinché negli orti circostanti possa arrivare la vita, è necessariamente il centro del mondo. Tutto è così aspro, difficile, duro -il sole e il vento che ti sfiancano, la sabbia che intasa e ingolfa le pompe fino a bloccarle- da far sembrare eroico ogni singolo gesto, nelle immagini che scorrono davanti a me. Giranti con i bulloni arrugginiti smontate con due chiavi inglesi, un sasso e l’acqua al posto dello svidol, baderne incastrate che, una volta aperte, liberano una manciata di terra rossastra, Fiorenzo che dialoga direttamente in italiano con i meccanici locali che lo capiscono al volo, perché è evidente come in realtà parlino la stessa lingua, sguardi, fatica, sudore: come può non essere questo il posto, dove essere, perché qui non c’è nulla da avere…
E invece no, la sensazione ruvida del mio labbro sui denti secchi di sabbia mi sveglia. Uno sguardo ad Hamudi e Abdala, dobbiamo allontanarci, scavalcare il campo, cambiare prospettiva. Superiamo il gruppo, saliamo su una duna, ci giriamo e inquadriamo, in campo larghissimo, Fiorenzo chino sui suoi appunti, appartato, con il gruppo alle spalle che confabula, dietro di loro il nulla, davanti il pozzo, una voragine spaventosa e affascinante quanto un cratere spaziale…
No, questo non è il centro del mondo: questa è una goccia nel deserto! (TV)

continua […]

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