A spasso con l’ispirazione – CdMF

“Cronache dal mondo fuori”, perché c’è ancora un mondo fuori, perché c’è sempre un mondo fuori!
La serie di racconti, disponibile anche in edizione audio per non vedenti, nasce dalle storie di chi ha voluto condividere con noi la propria esperienza dei giorni in isolamento nel 2020, per via dell’epidemia dovuta al Covid-19.
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Voci di Stella Dalla Costa e Tommaso Valente

La ragazza della neve

di Stella Dalla Costa

Bologna, 4 aprile 2020, ore 23:30

Ormai aspettava quel momento della giornata come una febbre. Meglio del bicchiere di vino rosso che aveva preso l’abitudine di bere, meglio dell’ultima sigaretta della giornata, meglio persino del messaggio di lui, che aspettava come una ninnananna tutte le notti. Alle undici, undici meno un quarto, si vestiva pesante, con una sciarpa sotto e una anche sopra il cappotto, metteva le scarpe comode, e usciva fuori.

Di solito faceva sempre lo stesso giro perché aveva paura che la scoprissero; soprattutto aveva paura di quello che avrebbe potuto dire se la scoprivano. Non aveva un cane, o una busta della spesa, e in quella zona non c’erano supermercati h24. “Buonasera agenti! Come procede la ronda notturna? Mi presento: mi chiamo Anna Trentin, sono un’artista. Sto portando a spasso la mia ispirazione. Anzi, sono venuta a comprare la mia ispirazione. Qui, nella penombra delle strade deserte, deformate dalle linee di questi portici che proteggono i miei sogni ad occhi aperti come fanno le ostriche con le loro perle migliori”. Poi avrebbe sorriso. Come sorrideva lei! I poliziotti l’avrebbero lasciata andare all’istante, con un “Ci perdoni signorina, per avere interrotto i suoi sogni. Si goda la sua ispirazione”. La strada era vuota. Completamente. Una montagna piatta. Lampioni per abeti. Palazzi per vette più alte. Finestre accese come stelle. Una montagna, perché da lì sopra poteva vedere tutto. Tutto quello che gli altri non potevano vedere. Poteva immaginare, poteva perdersi nelle sue fantasie. In via XXI aprile era come camminare sugli Champs-Elysées. “Aux Champs-Elysées, aux Champs-Elysées. Au soleil, sous la pluie, à midi ou à minuit. Il y a tout ce que vous voulez aux Champs-Elysées”. “Al sole, sotto la pioggia, a mezzogiorno o mezzanotte, c’è tutto quel che vuoi sugli Champs Elysées”. C’era tutto sì, c’era tutto quello che voleva, lì di fronte a lei.

C’era… la luce della finestra di un palazzo elegante. Si intravedeva l’intonaco color pesca, e le greche compassate, e lo spigolo di una libreria di mogano. “Ti va di ballare?” aveva chiesto lui. “No” aveva risposto lei. Allora si era immaginata lui vestito da tanghero con una rosa tra i denti, che metteva un vecchio lp nel giradischi e la prendeva per la vita. Lei avrebbe pensato che c’era voluto il coronavirus per lucidare il loro matrimonio, e mentre lui le faceva fare il casquè, avrebbe buttato la testa indietro ridendo forte. Allora avrebbe visto la foto capovolta dei loro figli con le corone d’alloro, e avrebbe pensato che quell’anno, per la prima volta, non avrebbero festeggiato la Pasqua loro quattro insieme. Poi suo marito le avrebbe solleticato la schiena per riportarla a guardarlo, e lei lo avrebbe baciato con passione, e si sarebbe consolata. Come consolavano lei quelle passeggiate, che non avrebbe diviso con nessun’altro.

E l’aria! Com’era cambiata l’aria. Non era ancora la stessa del paese dov’era nata, dove quando passeggiava si vedevano davvero gli abeti, e le vette più alte. Ma ci somigliava a quell’aria. Poteva inspirare ed espirare profondamente, per la prima a volta, da quando si era trasferita a Bologna. E poi si vedevano le stelle! Venivano fuori come il retro di un ricamo dal blu della notte. Blu come… la luce di un vecchio televisore, e rumore forte di risate, al piano terra di un ristorantino chiuso, e dentro, soffocato dalle sedie con le gambe all’aria, un uomo che lo guarda. Allora si era immaginata che fosse solo, ma che si sentisse ancora più solo a stare nella sua casa. Così preferiva tornare al suo ristorante la notte. Scendeva dopo le dieci, tirava su la serranda, si versava un bicchiere di birra, e gli pareva di sentire tutti gli odori e i rumori che era abituato a sentire ogni giorno: il profumo forte della signora Bergonzoni, l’odore di naftalina del cappotto del figlio, i guaiti festosi del cane di Angelino, gli starnuti di Peppe, che non riusciva mai a trattenersi quando gli scappava una battuta bella grossa.  Poi, tutte le notti, l’uomo si metteva seduto a un tavolo, come uno dei suoi clienti, e guardava i film con Mastroianni che vedeva sempre da giovane, quelli che gli mettevano la nostalgia, ma una nostalgia buona, quella nostalgia che sai che presto tornerai a casa. Che non manca tanto che torni… A casa. Camminando era arrivata di fronte alla sua vecchia casa, quella sopra la Banca Generale. Era lì che aveva vissuto il primo anno di università. Allora dormiva in una tripla. Una tripla! Non se lo ricordava più com’era fatta una tripla, adesso che viveva da sola. Quell’anno, davanti a quella casa, aveva aperto i palmi della mani verso l’alto, si era fermata, e aveva chiuso gli occhi. Le era sembrato di sentire di nuovo… 

… La neve. Forse a forza di guardare il niente che gli trasmetteva la telecamera di sorveglianza aveva perso la testa. Il niente eccetto quella ragazza, che ormai era diventata la sua unica compagnia in quelle nottate riscaldate solo da una stufetta elettrica, che si spegneva appena si facevano diciotto gradi. Neve. Forse stava perdendo la testa, ma gli sembrava che quella ragazza con gli occhi chiusi e i palmi delle mani rivolti verso l’alto, fosse lì ad aspettare la neve. Che età poteva avere? Vent’anni? L’età di Marta. Sì, le ricordava sua figlia Marta, ma quando era piccola. Quando veniva fuori la neve uscivano sempre loro due insieme, e lui non sapeva più dove guardare, perché Marta correva dappertutto, e rideva, rideva sempre. “Mi prendi Papà?”. Da bambina anche Marta avrebbe fatto come la ragazza là fuori. Qualche sera prima, però, aveva pensato di chiamare qualcuno, ma più che altro perché era preoccupato che si facesse ammazzare. La ragazza della neve camminava tutte le notti in mezzo alla strada. Esattamente nel mezzo. Sempre. E spesso, proprio come stava facendo adesso, si metteva con i palmi delle mani verso l’alto, e la testa a guardare il cielo. Poi chiudeva gli occhi e…

Tirava fuori la lingua… Niente. Non arrivava niente. Ma era bello immaginare che sarebbe arrivata. Da quando era cominciato il coronavirus, le sembrava che ogni giorno venisse giù una valanga di neve. Come nel 2012, quando a Bologna non si riusciva ad aprire la porta di casa da quanta ne era venuta giù. Si fermava tutto quando c’era la neve, e tutto era più silenzioso, come chiuso in una scatola di cotone. E tutti si arrendevano, quando c’era la neve. Ma una resa liberatoria. Una resa che tiri un sospiro di sollievo perché non ti devi sforzare più. Come la coppia che stava ballando il tango, o l’uomo che stava guardando i film con Mastroianni… 

…Avrebbe voluto che Marta fosse com’era da bambina. Invece adesso aveva sempre gli occhi scuri, e lui sapeva che era per via di quel ragazzo. Era spenta. A vent’anni non si può essere spenti. No. Non a vent’anni. Non riusciva più a entrare da un po’ di tempo, lei non lo lasciava più entrare nel suo dolore. Chissà se… Sì, lo aveva appena fatto! Era entrata nella fontana. Solo con i piedi per fortuna. Gli sembrava di sentirla fare “sciaf sciaf” mentre girava nell’acqua. Girava girava girava. E rideva. Come Marta. Anche Marta l’avrebbe fatto. Il dolore per Marta sarebbe passato, perché passa. Col tempo tutto passa. Rideva…

… Perché era felice. Da quanto tempo non era così felice? Si era innamorata, perché le lettere che si erano scritti quasi per scherzo in quei giorni che erano lontani, avevano costruito un legame timido, ma sincero. Stava dipingendo tutto il giorno e tutta la notte. I ritratti di tutti quelli che gli stavano a cuore. Voleva farlo da sempre, ma c’era sempre stata l’università, poi il lavoro, poi le serate… Stava imparando a conoscere se stessa. Aveva il tempo di annoiarsi fino a che non le veniva voglia di ascoltarsi. E quante cose aveva da dire e da pensare! Quante idee, quante intuizioni! Non poteva fare quello che faceva prima, certo, ma era una fortuna. Si sentiva libera. Non si era mai sentita così… 

… Libera, nel cielo, come sua figlia Marta. La ragazza della neve era uscita dall’acqua e stava attraversando la strada verso l’ingresso principale della Banca. Dalla telecamera lo guardava e gli sorrideva, come se lo vedesse davvero. “Martaaaaaaaaaaaa!” aveva urlato. No, anche lei no. No no no no! La poltrona girava girava girava nel vuoto, senza un perno, e lui era già davanti all’ingresso a digitare il codice dell’allarme.

Doveva salvarla, almeno lei. L’autobus non correva alla solita velocità, ma lei si era distratta, distratta perché guardava sempre in alto. Sempre.  Era uscito, ce l’aveva fatta. Lei non c’era. Ma non c’era neanche più l’autobus, e non c’era niente sulla strada. “Buonasera” aveva detto una voce femminile. Una voce immensamente dolce. Veniva dalla sua destra. La ragazza della neve era davanti a lui, in carne e ossa, e non solo, da vicino era molto più bella di come l’aveva immaginata attraverso gli infrarossi della telecamera. Aveva gli stessi occhi di Marta. Gli stessi occhi buoni che lo guardavano tutte le notti prima che lottasse per farsi venire anche solo uno sbadiglio, uno solo. 

L’uomo in divisa piangeva, si era accucciato sulla colonna del portico e piangeva. Più che piangere nitriva, come un purosangue ferito a morte. Lei lo aveva abbracciato forte, ma con calore e rispetto, come si abbracciano certi sogni ad occhi aperti. Aperti perché ci aprono alla vita. Lei lo aveva abbracciato come si abbracciano i sogni che si fanno d’estate, nelle notti piene di stelle, quelli che si custodiscono nel cuore come un tesoro prezioso.

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