Sogno di quarantena. – CdMF

“Cronache dal mondo fuori”, perché c’è ancora un mondo fuori, perché c’è sempre un mondo fuori!
La serie di racconti, disponibile anche in edizione audio per non vedenti, nasce dalle storie di chi ha voluto condividere con noi la propria esperienza dei giorni in isolamento nel 2020, per via dell’epidemia dovuta al Covid-19.
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Voce di Matilde Gravili

Non posso manco più sognare in santa pace

di Matilde Gravili

I sogni che faccio da quando siamo chiusi in casa sono strani: ora anche la mia vita onirica ha iniziato a svolgersi in quarantena.
Mi sono ritrovata catapultata in via del Pratello. Credo di averla sognata per tre motivi: il primo è che la via è famosa a Bologna per essere frequentata da universitari, e quindi anche da me. È stata teatro di molte mie scorribande bolognesi. Oltre a questo, ci abitavo da bambina e mi ci sento, ancora oggi, molto legata.
Infine, nella vita reale, un mio amico su Facebook ha postato una foto di via del Pratello, completamente deserta, durante un sabato sera. Cosa mai vista. Ricordo di aver pensato di volerla vedere anche io, per provare quella malinconia che si prova vedendo un posto caro quasi disabitato. Quando pensi a una cosa così intensamente è automatico che te la ritrovi in un sogno, o almeno per me è sempre stato così.
Così mi addormento e mi materializzo lì. Un sogno così reale da sembrare vero. Provo sensazioni fisiche, sento i piedi che fanno male mentre cammino sui ciottoli rotondi decorativi della strada, quelli che evito sempre quando vado in bici sennò tremo tutta. Ricordo ancora la costante paura di essere fermata dalle forze dell’ordine. Non capisco il motivo, all’inizio, di questo mio timore. Poi mi rendo conto di star girando senza autocertificazione. “Fingi di essere tranquilla, se non ti fai notare non ti fermano”, dico fra me e me, manco fossi il peggior spacciatore della zona. Mentre penso a questa cosa, arrivo all’altezza della mia vecchia casa e provo a fare una foto col telefono per immortalare la desolazione. Di fronte a me c’è una signora. Non me ne accorgo subito, solo dopo aver infranto la distanza di sicurezza di un metro. Ci troviamo fianco a fianco e io la guardo preoccupata, come per dire “mo mi fa il cazziatone”. Lei, però, mi lancia uno sguardo comprensivo, sorridente in maniera malinconica. È triste per la situazione, lo capisco perché ho già visto questo sguardo anche nella vita reale, le rarissime volte che ho messo piede fuori: è lo sguardo che abbiamo tutti in questo periodo.

Foto di Matilde Gravili


Anche la signora sta cercando di fare una foto alla via e usa i suoi gomiti come treppiedi appoggiandosi a una macchina, un pandino vecchio stile rosso. Lei riesce a scattarle, io no: la luce è troppa, nonostante il sole stia tramontando. Mi innervosisco, cerco di cambiare le impostazioni del telefono ma niente. Quando finalmente il cellulare decide di mettere a fuoco, la via si riempie di Riders di Deliveroo pronti a consegnare pizze. Mi incazzo così tanto che faccio per andarmene. Sono venuta fin qui, rischiando una multa stratosferica, e non riesco nemmeno a fare una foto per ricordo.
All’altezza del bar Piratello, però, mi si affiancano quattro videomaker con una bici da corsa gialla, che stanno palesemente girando uno spot sulla suddetta bici. Il più alto fra i quattro mi inizia e seguire fino a raggiungermi, poi mi punta la telecamera in faccia fino a spingermela sulla guancia, facendomi male. All’inizio cerco di ignorarlo, come si fa per strada con quelli che ti danno fastidio, ma lui mi continua a dire che sarei perfetta per quello spot e che potrei girarlo insieme a loro.
Accetto solo per togliermeli di torno ma, invece di riprendermi, iniziano a farmi un sacco di domande sul bikesharing! Del tipo: “secondo te cosa dovrebbe avere un servizio di noleggio biciclette per essere efficiente?”
Ci penso bene: voglio rispondere bene, li voglio impressionare e sentirmi dire che sono brava. Mi faccio ispirare dalle nostre care Mobike e rispondo: “secondo me deve essere un servizio efficiente, semplice e intuitivo. Deve poi essere facile a trovare bici in città”. A ogni mia risposta i quattro si mettono a ridere, dicono che non è quello il punto. Ci riprovo, dico cose più giuste ma non mi ascoltano più, parlano fra loro e ridono. Il tizio che mi aveva puntato la telecamera in faccia poco prima si avvicina a me, inizia ad abbracciarmi un po’ troppo e a provare a baciarmi. Provo fastidio nel sentire la sua mano posarsi sul mio fianco e cerco di respingerlo. Siamo proprio sotto al portone della mia vecchia casa e ci stiamo dirigendo verso il bar Macondo. Anche gli altri iniziano a infastidirmi. Ricordo di aver pensato: “Girare lo spot era una scusa, questi vogliono solo provarci con me!”


Mentre siamo quasi sotto al portico, quattro vigili della quarantena (semplici vigili urbani ma con un cappello con su scritto “quarantena” a caratteri cubitali), ci fermano. Sono quattro donne e so benissimo che ci hanno bloccati solo perché mi hanno vista in difficoltà. Ci ordinano di mantenere le distanze di sicurezza e di tirare fuori l’autocertificazione. Sorpresa! Ravano nelle tasche ed ecco la mia autocertificazione. Ero sicura di non averla, ma amo i sogni proprio per questo: il certificato mi si è materializzato in tasca, come la pietra filosofale di Harry Potter. Per gli altri ragazzi, invece, niente magia. Così, sono libera di andarmene lontana dai vigili e di scappare dai quattro, mentre loro vengono trattenuti per dei controlli.
Mi sveglio proprio mentre imbocco via dei Coltellini di corsa e cerco di tornare a casa. Mi guardo intorno, sono già qui. È l’alba di un nuovo giorno di quarantena forzata, anche nella vita reale.
Ancora in dormiveglia penso a quanto tutto questo sia tragicomico: non solo mi devo beccare la reclusione nella vita vera, ora non posso nemmeno farmi un giro nei sogni. Devo avere l’autocertificazione anche per entrare nella mia fase REM.

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