Il 2020 che non avevo immaginato – Cronache dal nuovo mondo
Tornano i racconti dal vero di “Cronache dal mondo fuori” con 5 inediti di Stella Dalla Costa: una breve raccolta dal titolo “Cronache dal nuovo mondo”. Queste cinque storie raccontano cos’è successo ai protagonisti di alcuni racconti scritti per il progetto Cronache dal mondo fuori quando quegli stessi protagonisti sono usciti fuori nel mondo, dopo il lockdown.
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Ascolta “Il 2020 che non avevo immaginato – Cronache dal nuovo mondo #01” su Spreaker.Cronache dal nuovo mondo, Il 2020 che non avevo immaginato
31 dicembre 2020, ore 21. Casa dei mei.
Fuori ci sono ancora le ombre della neve. Per compensazione il 2020 ci ha regalato una fioccata con tutti i crismi. Mio fratello in cucina prepara il Martini Dry, che mi sembra il modo più degno per annegare l’anno che è stato. Come sempre la sera del 31 penso ai propositi per l’anno che verrà: smettere di fumare (anche se sembra che il covid attecchisca di meno, sui polmoni dei fumatori), far uscire gli ex da sotto le coperte (dove si conosce qualcuno di nuovo di questi tempi?) e cominciare con le app di incontri serie, tipo Once. Però le installo quando torno a Bologna, sennò mi tocca trovare un fidanzato con la cadenza del mio paese.
Sono a casa dei miei, per l’ultimo dell’anno. Come tanti sono rimasta intrappolata qui quando ci sono tornata per le feste. Troppo complicato ricordare le restrizioni del Natale spezzatino. Sembrava la filastrocca dei mesi. Zona rossa il 24 dicembre, il 25, il 26, il 27, di 4 gennaio ce n’è uno, rossi fino al 6 e scordati il 31. E la zona arancione? Boh.
In effetti erano anni che non succedeva, che passassi il capodanno a casa mia. È consentito uno scambio di coppia una volta al giorno, massimo due persone, per andare a trovare altre due persone. Deroghe per chi ha meno di quattordici anni, e per mariti che sono stati in Tunisia a farsi il trapianto dei capelli.
Butto giù il primo sorso del mio Martini Dry, che è venuto bello forte, e penso alle cose che vorrei bruciare di questo 2020. La parola coprifuoco, e tutto il lessico militare da combattiamo il covid. O tutte le volte che ho detto che ero depressa per colpa del covid. Quando la verità era che non volevo affrontare le cose che mi facevano paura anche prima, del covid.
C’è stato tutto quel tempo, durante la prima quarantena, in cui sono rimasta a casa dal tirocinio, senza niente di produttivo da fare. Non mi capitava dall’estate della maturità. Nel mio appartamento di Bologna ero rimasta sola. Non c’era nessun’altro da ascoltare, e mi sono ascoltata io: non ero il lavoro, e non ero le mie relazioni.
In modo naturale ho ripreso a fare tutte le cose che amavo da bambina. Allora c’era davvero qualcosa che mi appassionava. Allora è vera quella frase che dicono tutti: quando fai le cose che ti piacciono ti svegli al mattino che non vedi l’ora di uscire dal letto per cominciare la giornata.
Tante volte, quest’anno, mi sono domandata che cosa me ne facevo, in fin dei conti, della gente che mi ronzava intorno. Di tutti quei semi amici, quasi amici, che ti fanno passare le serate, di tutti quelli che ti scopi ma che non porteresti mai dentro casa tua, della famiglia, che nessuno di noi si è scelto. Quando siamo rimasti soli, c’è stato un momento in cui ho pensato che sarei potuta bastarmi.
Per chi viveva solo la vita in un certo senso è stata più facile. Niente abbracci ma neanche conflitti, niente confronti ma neanche discussioni, nessun obbligo di vedere sempre le stesse facce, negli stessi posti.
Eppure la vita non si vive su Zoom. Dobbiamo piangere per amore, arrabbiarci, ridere, dobbiamo anche annoiarci qualche volta. Viviamo solo quando facciamo esperienza delle cose. Quando tocchiamo, annusiamo, assaporiamo.
Le linguine con i gamberi di Mazzara e il pesto di Pistacchio, per ricordarmi della vacanza in Sicilia. Guardo mio fratello impiattare come i grandi chef della televisione, e penso alla telefonata che gli ho fatto durante il primo lockdown. Piangendo gli raccontavo di aver inviato tutti i miei risparmi a una setta femminista. Avevano promesso di aiutarmi a realizzare i miei sogni, l’unica speranza quando tutto attorno a me era impantanato nel cemento a presa rapida. Mio fratello mi ha ascoltata, si è fatto una risata, e non ha detto niente.
Terrazza con vista, ore 24.
È mezzanotte, e come succedeva da bambina, le colline cominciano a riempirsi di fuochi d’artificio che scoppiano uno a rincorrere l’altro. Come una fila di birilli quando fai strike al bowling.
Penso che le cose che restano spesso non sono quelle che avevamo immaginato. Di questo 2020 mi ricordo quando prima di addormentarmi inventavo i ringraziamenti per il mio romanzo nel cassetto, futuro best seller internazionale. Ringrazio: il mio primo amore, la maestra di matematica (per avermi fatto capire che la mia strada era un’altra), tutti gli stronzi che mi hanno detto che ero buona solo a scrivere di amore e torte di mele. Mi ricordo la luce sullo scolapiatti la mattina, quella di riflesso che sembra il bagliore della luna, o quando ero sicura di essermi innamorata (due volte), dopo aver passato la notte in videochiamata a raccontare tutta la mia vita a un nessuno rimorchiato su Instagram. Mi ricordo delle gemelline di pochi mesi a cui ho fatto da babysitter, che se non era per il bonus del governo è un lavoro che non avrei mai fatto. Non sapevo che la vibrazione di un neonato fosse la stessa delle campane tibetane. Mi ricordo il primo bacio con la lingua dopo mesi di isolamento, che mi sono sentita quattordici anni. Mi ricordo la prima volta che ho visto il mare. Mio fratello mi dice: ti voglio bene sorellina. Ecco qualcos’altro che resta.
Quando ritorna il silenzio, e sento che arriva il vento freddo dalla valle, penso che di questo 2020 mi ricorderò più di tutto la forza, impagabile, che mi è servita per guardare dentro me stessa, senza portarmi dietro una coperta.
Mi chiamo Stella Dalla Costa, classe 1991. Sono editor e scrittrice. Qualche volta dipingo, e ogni tanto incido audiolibri, studio antropologia e dicono sia una grande cuoca. Sono nata tra le colline di Vicenza, che poi sono diventate i colli bolognesi, ormai da dieci anni. Bologna è casa, e la cornice accogliente di queste storie profondamente umane che ho avuto il piacere di scrivere per Instant Documentary. In fondo penso non ci sia niente di più taumaturgico che riconoscersi negli occhi di qualcun altro, specie se è molto diverso da noi.